partitaNel giorno in cui, a Bruxelles, Ue e Uefa firmano un accordo per sostenere lo sport quale elemento di pacificazione tra i popoli, di crescita umana, anche con l’intento di battere doping, scommesse e violenza che albergano dentro e fuori gli stadi, soprattutto di calcio, a Belgrado i giocatori delle nazionali di Serbia e Albania se le danno di santa ragione. 
Sul campo di football, nel bel mezzo di una sfida per le qualificazioni agli Europei 2016, svolazza un “drone” (in realtà una sorta di patetico aeroplanino telecomandato, roba da pochi euro) con appesa una bandiera della “grande Albania”, che inneggia alla libertà e all’indipendenza del Kosovo. Un giocatore serbo tira a terra la bandiera, i calciatori albanesi (l’Albania si erge a “tutore” dell’autodeterminazione del piccolo Kosovo rispetto al “nemico” serbo) si scatenano, interviene la polizia, alcuni tifosi serbi scendono in campo, altre botte. Finché l’arbitro inglese decide di mandare tutti negli spogliatoi. Partita sospesa: lo sport ha perso, i nazionalismi e i violenti han vinto un’altra volta. 
Ivica Dacic, ministro degli Esteri di quella Serbia candidata a far parte dell’Unione europea, rilascia una dichiarazione non certo ispirata dal cielo: parla di “provocazione politica premeditata” e aggiunge che “una cosa del genere non è mai accaduta in nessun campo di calcio. Attendo di vedere come reagiranno l’Unione europea e la Uefa”. Reazioni uguali e contrarie partono da Tirana. 
Fra i tifosi serbi più scatenati riappare peraltro in campo – avendo quindi forzato il cordone della polizia – tale Ivan Bogdanov: in Italia lo si conosce bene, è il famoso “Ivan il Terribile”, capo ultrà di tendenze fascistoidi, che quattro anni fa a Genova riuscì a interrompere la partita Italia-Serbia guidando dimostrazioni violente sugli spalti. Ivan per quel fatto è stato in carcere quasi due anni e ha finito di scontare la pena lo scorso aprile. Ma il lupo perde il pelo, non il vizio. Del resto Paese che vai, “Genny ‘a carogna” che trovi…
Nel frattempo le strade e la piazza di Tirana vengono invase da esagitati albanesi che certo non promettono the e pasticcini ai vicini serbi. 
Quello dello stadio di Belgrado può essere solo un episodio. Ma sarebbe un atteggiamento colpevole fingere di non vedere che tuttora i Balcani sono una polveriera. Quindici anni fa sulla questione kosovara si sviluppò una tragica guerra. Da allora Albania e Serbia sono ai ferri corti. Da quelle parti c’è pure la Bosnia Erzegovina, mai pacificata dopo il conflitto degli anni ‘90, che alle elezioni del 12 ottobre scorso ha premiato i leader nazionalisti delle tre comunità in cui è frazionato il Paese. È poi sempre latente il braccio di ferro tra Macedonia e Grecia, sul nome da assegnare alla prima, che la seconda contesta. E come trascurare ciò che cova sotto la cenere per quanto accaduto nelle stesse guerre degli anni ‘90, alle quali non si sottrassero – con responsabilità diverse e colpe spesso non ancora punite – croati, sloveni, serbi, bosniaci…
Intanto il percorso “europeo” dei Balcani procede. Benché s’intuisca che di strada da percorrere verso la democrazia, la pace, la concordia tra i popoli sia, purtroppo, ancora molto molto lunga.

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