kobaneDi Daniele Rocchi
Ci sono rimasti solo loro a provare ad arrestare l’avanzata delle bandiere nere dell’Is, lo Stato islamico, che ha messo in campo per questa battaglia i suoi uomini migliori, vale a dire le milizie cecene. I peshmerga, i combattenti curdi asserragliati a Kobane, la città curdo-siriana al confine con la Turchia da tre settimane sotto assedio dei jihadisti guidati dal califfo al-Baghdadi, combattono casa per casa, metro per metro. Secondo fonti dell’esercito americano, le milizie curde continuano a controllare gran parte della città anche se oggi l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha affermato che lo Stato Islamico ha in mano oltre un terzo di Kobane.
Raid inutili. Sembrano contare poco i raid aerei della Coalizione messa su dagli Usa per colpire le postazioni dell’Is. La bandiera nera ormai sventola anche sulle colline che circondano la città. Ad imbracciare le armi contro l’invasore sono adesso anche le donne, e non è una novità nella tradizione militare curda, insieme ai bambini, secondo quanto riportano fonti locali attraverso social network come Twitter. Tutto questo mentre si fa sempre più strada, nel fronte anti-Is, la convinzione che per ottenere risultati vincenti sul campo occorrono truppe di terra. A sostenere i curdi nella loro battaglia per la libertà sono – almeno per ora – i conterranei che vivono in diaspora, in Turchia, dove in seguito a forti proteste in piazza sono stati dispersi dalla polizia ad Ankara, Diyarbakir e nelle province del sudest. Finora sono almeno 21 le vittime provocate dagli scontri e decine i feriti. Manifestazioni di curdi si sono registrate anche a Berlino, Parigi, Marsiglia, Nicosia e nello scalo romano di Fiumicino. Occupato anche l’Europarlamento. Scontri tra curdi e musulmani radicali sono avvenuti ad Amburgo.
La Turchia resta a guardare. Se la città dovesse cadere nelle mani dell’Is, sono parole dell’inviato dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura, “sarà un massacro e una tragedia umanitaria”. L’inviato rivolge un appello alla comunità internazionale affinché intervenga subito. E di motivi per intervenire ce ne sono molti oltre a quelli umanitari. Innanzitutto geostrategici. Kobane è strategica perché assicura il controllo su buona parte del confine turco-siriano: una volta in mano ai jihadisti, consentirebbe loro di consolidare la presa su un territorio enorme che da Aleppo arriva alla roccaforte islamista Raqqa fino alla frontiera irachena. Ma questo rischio pare non smuovere la Turchia che dopo il voto del Parlamento della scorsa settimana ha deciso il dispiegamento di una trentina di carri armati su una collina a meno di due chilometri dall’enclave curda in territorio siriano. L’ordine di attacco, però, non arriva. Intanto alla frontiera turca sono ammassati decine di migliaia di curdi destinati a diventare carne da macello se l’Is avrà partita vinta. I motivi di questa posizione attendista vanno ricercati nel timore turco di favorire la causa curda. A Kobane, infatti, a fianco dei curdi siriani combattono i miliziani del Pkk, il partito curdo di Turchia il cui leader Ocalan pochi giorni fa aveva avvertito Ankara: “Se Kobane cade, non solo finirà il processo di pace (tra Turchia e Kurdistan, ndr), ma si aprirà la strada verso un lungo e duraturo colpo di Stato”. Il rischio, infatti, è di far ripiombare il Paese in una spirale di violenza e di attacchi terroristici. A smuovere il Paese della Mezzaluna, a questo punto potrebbe essere un altro obiettivo: la caduta del presidente siriano Assad. Vanno lette in questa direzione le dichiarazioni del presidente Erdogan che ha chiesto l’istituzione di una “no-fly zone” sul cielo siriano che impedisca all’aviazione di Damasco di alzarsi in volo, e di una zona cuscinetto dove addestrare le opposizioni ad Assad. Ancora più chiaro il premier turco, Ahmet Davatoglu che alla Cnn ha ribadito che la Turchia interverrà “solo se la strategia degli Stati Uniti includerà un piano per il dopo Assad”.
Padre Jallouf liberato. E mentre a Kobane si combatte, dalla Custodia di Terra Santa arriva oggi la notizia della liberazione di fra Hanna Jallouf, il parroco di Knayeh (villaggio cristiano nella Valle dell’Oronte), che era stato prelevato da miliziani jihadisti vicini al movimento Al Nusra nella notte tra il 5 e 6 ottobre. Poco prima erano state liberate anche alcune donne che facevano parte del gruppo di parrocchiani rapiti. Al telefono il frate minore ha confermato di essere rientrato al convento di San Giuseppe dove è stato posto, per così dire, “agli arresti domiciliari”. Il frate può muoversi liberamente nel villaggio, ma non allontanarsi da Knayeh.

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