Di Maurizio Calipari

Si avvicina a grandi passi la celebrazione del Sinodo straordinario sulla famiglia, convocato da Papa Francesco per il prossimo mese di ottobre. Le pagine dell’Instrumentum Laboris, presentato a giugno scorso in preparazione all’assemblea, tra gli ambiti segnalati come ‘problematici’ e che quindi necessitano di riflessione (e, forse, di un approccio ermeneutico nuovo), ci consegnano il tema della legge morale naturale. Tema che, per poter essere approfondito e rivisitato con frutto, va riconsiderato alla radice, a partire dalla sua stessa denominazione, dai termini che lo indicano e, fra questi, in primis, dall’aggettivo ‘naturale’, che lo qualifica in modo specifico.
a, cosa intendiamo esattamente con ‘naturale’? L’analogia della parola ci permette di assegnare a questo aggettivo almeno tre significati differenti: ‘naturale’ come contrapposto a ‘soprannaturale’, riferito a ciò che è presente nell’uomo anteriormente e indipendentemente dalla Rivelazione; ‘naturale’ come contrapposto a ‘positivo’, riferito a ciò che non è ‘dato’ o prescritto da una legittima autorità; ‘naturale’ nel senso di ‘presente in natura, che appartiene o rimanda alla natura’. Quest’ultimo significato, all’apparenza il più immediato, è sicuramente quello che, nel tempo, è divenuto in realtà il più problematico, perché richiede un ulteriore passaggio chiarificatore circa il concetto di ‘natura’ a cui l’aggettivo rimanda. L’accento, perciò, si sposta su questo concetto a cui vale la pena dedicare la nostra attenzione. Ovviamente, ciò che interessa maggiormente la nostra prospettiva è la considerazione del concetto di ‘natura umana’, il cui chiarimento è compito proprio dell’antropologia filosofica che, da sempre, cerca di dare risposta agli interrogativi fondamentali sull’uomo, la sua dignità e i suoi valori, proprio in relazione alla sua natura.
Il contesto però è mutato nel tempo. Non possiamo infatti far finta di non vedere come la parabola antiumanistica contemporanea, disegnata da alcuni filoni del pensiero occidentale, abbia prodotto lo sfaldamento di un comune orizzonte di comprensione intorno all’uomo, mettendone in discussione la centralità e la possibilità stessa di conoscerne i tratti essenziali. In più, le scienze umane attuali, con le loro attività di ricerca, sbandierano orgogliosamente i risultati ottenuti, suggerendo che sia giunto il momento di congedarsi da una rassicurante immagine di natura, per fare i conti con un’immagine meno confortevole e più realistica. Esse tendono da una parte a vedere l’uomo come ‘referente di segni’ e, nello stesso tempo, lo presentano come privo di un substrato permanente e unitario che sostenga il concetto di ‘natura umana’. Ecco perché non sembra possibile riconoscere “l’humanum” fermandosi al contributo delle sole scienze umane. La specificità umana, intesa come significato globale dell’esistenza, non rientra metodologicamente nell’oggetto della ricerca scientifica, neanche quando si tratta di scienze umane.
Ma allora, quale conoscenza possiamo avere noi della natura e della “natura umana”?
Di sicuro, non più una conoscenza certa ed assoluta della natura, con la sua esigenza di normatività tipica degli inizi del ‘900. Ma pur sempre una conoscenza reale e significativa; intendiamoci, riconoscere l’esistenza di una natura comune agli uomini non significa certo guardare ad essa come ad un totem sacro e intangibile; ma nemmeno come a un contenitore vuoto e indifferenziato da riempire, di volta in volta, con contenuti vaghi e mutevoli.
Da dove ripartire allora? Magari da qualche certezza. Si narra di un aneddoto riferito a S. Tommaso d’Aquino. Pare che il “Doctor angelicus”, all’inizio dei suoi corsi universitari, solesse mostrare ai suoi allievi una mela, dicendo “Questa è una mela. Chi non è d’accordo può andar via”. Così facendo, l’Aquinate voleva chiarire subito ai suoi studenti un’evidenza: la realtà precede il pensiero, non viceversa. Il pensiero (razionale) non crea le realtà che sono, ma si relaziona ad esse in uno sforzo di conoscenza. E la ragione umana è in grado di attingere alla natura per trarne scintille di verità. Forti di questa certezza, la via da percorrere, per superare il grande progetto di decentramento della persona umana messo in atto dalle scienze umane e la perdita di fondamento che caratterizza gran parte delle antropologie contemporanee, potrebbe consistere nel riproporre convintamente una concezione unitaria dell’uomo (contro ogni dualismo o vaga definizione della persona in termini di relazione). In questa prospettiva, la natura umana consiste in un nucleo permanente nell’uomo (da ricercare con umiltà), non dipendente dal suo divenire storico, accessibile alla ragione e incluso nella definizione formale di essere personale libero. Il supporto ontologico alla realtà della persona probabilmente non sarà più rappresentato dalle categorie della metafisica classica, ma da un’interpretazione personalistica, maggiormente esistenziale, del tradizionale sostanzialismo di marca aristotelica.
In definitiva, se “natura” in senso stretto rimanda al dato biologico, in senso largo, essa designa l’essenza globale dell’uomo, di cui fanno parte le sue coordinate essenziali: la componente biologica, l’autodeterminazione, la creatività (libertà e ragione).

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