RobinRobin Williams lo aveva detto otto anni fa nel corso di un’intervista a un quotidiano italiano: la società di oggi pone il tragico problema delle dipendenze, da droga, da alcool, da chirurgia plastica, da efficienza a tutti i costi. Ora che anche lui se ne è andato, rimangono quelle sue parole che ci mettevano e ci mettono ancor più oggi in guardia contro il moloch del mondo cosiddetto civile, che può essere riassunto, al di fuori delle dotte sentenze mediche, nella parola solitudine. Soprattutto d’estate, quando la luce diviene ossessiva, quasi una parodia della nostra situazione interiore. Quando si è soli dentro, non perché il mondo ci abbia convinto di essere festante e felice nei riti delle spiagge massificate, ma perché abbiamo scoperto l’inutilità di quelle feste a tutti i costi.
Il demone meridiano dei saggi antichi, ma anche di Shakespeare e Pavese, Verga e Prevert, il dio che poteva, solo lui, abitare il meriggio estivo mediterraneo, e che avrebbe ustionato mortalmente chiunque si fosse spinto fuori delle proprie stanze, rende più temibile la solitudine. Quando ogni atto è stabilito dagli dèi del “benessere” e della “libertà” assoluti, giunge il momento dello svelamento della inconsistenza delle cose.
I personaggi di Williams ci hanno però, e non è una contraddizione, indicato la strada: l’insegnamento come offerta del sé più libero e profondo, la fantasia che può catturare di nuovo le famiglie nell’amore e nell’unione contro ogni fantasma di felicità indotta dal sistema dei consumi. Ha ragione la moglie: i suoi personaggi parlano per lui e continuano a dirci che l’isola non trovata esiste, a patto che noi vogliamo vederla, e che i bambini malati possono trovare la via della guarigione attraverso un sorriso, che la scuola può salvare, anche solo con una poesia letta a un branco di ragazzi che non hanno avuto mai a che fare con le profondità di certe poesie, ma solo con il conto delle sillabe e il riconoscimento degli endecasillabi, che è la negazione della vita celata nella poesia.

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