SiriaDi Asmae Dachan
Difficile immaginare, ora che è estate e tutti gli studenti sono in vacanza, che da qualche parte nel mondo ci siano bambini che bramano di andare a scuola. Sognano uno zainetto sulle spalle, quaderni da scrivere, matite colorate, libri, banchi, lavagne, compagni di gioco e di studio, maestre e compiti. Eppure quello di desiderare ardentemente la scuola è un pensiero comune tra i bambini siriani: in molte zone, infatti, sono già più di tre anni che il sistema scolastico è completamente paralizzato. A settembre comincerà il quarto anno scolastico dall’inizio delle violenze: milioni di bambini perderanno un nuovo ciclo della loro formazione. Alcuni piccoli la loro formazione non l’hanno mai neppure cominciata.
Generazione derubata dell’infanzia. “Un’intera generazione di bambini siriani è a rischio, non solo per gli spari e le bombe, ma anche perché è stata derubata della sua stessa infanzia”. È la denuncia di Shadya, giovane psicologa che nella provincia di Aleppo ha avviato un progetto per il sostegno delle piccole vittime di guerra. “Un bambino di sette/otto anni che non è mai andato a scuola, che non conosce altra vita se non quella precaria in un alloggio di fortuna è un bambino a rischio. Spesso non ricorda più nemmeno cosa significhi giocare e ha assistito a scene di violenza che non ha mai metabolizzato”.
Una scuola temporanea. Shadya mi accompagna in una “scuola temporanea”: un tendone dove sono stati portati banchi, sedie e una lavagna. All’interno studiano 80 bambini, con tre insegnanti. Mi presenta la direttrice, Nadia, 25 anni, originaria di Homs. Parla con voce pacata e a tratti fatica a trattenere le lacrime: “Prima di perdere la casa e rimanere vedova a seguito di un bombardamento ero insegnante di lingua araba in una scuola media. Abbiamo dovuto lasciare il quartiere e abbiamo trovato ospitalità qui nella provincia di Aleppo da alcuni parenti. Per un lungo periodo sono rimasta prigioniera del mio dolore: ho perso mio marito ed ero senza più una casa, senza i nostri ricordi, senza i nostri sogni e progetti per il futuro. Poi ho guardato i miei due figli, di 7 e 4 anni e mi sono detta che dovevo reagire e dare loro un’opportunità. Mi sono informata nella zona per capire se c’erano scuole, scoprendo che nel raggio di decine di chilometri non esistono più scuole funzionanti: o sono state colpite dagli ordigni, o ospitano famiglie senza più un tetto. Ci siamo dati da fare chiedendo aiuto alle associazioni umanitarie che riescono a raggiungere queste località. Quando sono riusciti a procurarci il tendone ci sembrava quasi un sogno. Abbiamo passato parola tra la gente del posto e siamo riusciti a trovare altre tre insegnanti disposte a lavorare anche se senza retribuzione. Da 20 bambini, siamo arrivati ad accoglierne 80. È stata una sfida tutta in salita: all’inizio non avevamo né sedie, né banchi, né quaderni, nulla. Dividevamo i piccoli in gruppi e li disponevamo in cerchi in base alle età, lavorando sulla trasmissione orale, sul canto come veicolo di formazione. Poi sono arrivati i quaderni e i colori ed è stata una festa. Ora abbiamo persino un generatore di corrente e d’inverno una stufa elettrica”. Gli occhi le si riempiono di lacrime e si morde il labbro: “È mortificante, è come essere tornati all’età della pietra e trovare straordinaria ogni nuova conquista, ma ci facciamo forza pensando ai bambini. Ora sono tutti alfabetizzati e hanno ripreso lo studio. In quasi due anni le soddisfazioni che i piccoli ci stanno dando ci hanno ripagato di ogni dolore e sacrificio”.
Consolare i piccoli. Nadia ci racconta delle difficoltà quotidiane che alunni e insegnanti vivono, di quanto sia difficile mantenere la calma tra i piccoli quando si sente il fragore delle bombe, di come sia logorante consolare i bambini che raccontano dei traumi vissuti o delle scene di violenza a cui hanno assistito. “La nostra scuola si chiama Amal (speranza) perché la scuola oggi è l’unica speranza per il futuro e il presente dei bambini siriani”.

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