Di Marina Luzi

“Mare nostrum” ha fatto tappa ancora una volta a Taranto. Gli ultimi arrivati sono 1.200 migranti, tra cui una decina di donne incinte e minori non accompagnati, di provenienza siriana e pakistana, ma anche eritrea, libica e subsahariana.

Nessun allarme. “Sono stati tutti visitati, c’è altissima attenzione. Non creiamo falsi allarmi. Non ci sono casi che mettono a rischio la salute pubblica”, ha sottolineato il comandante di nave San Giorgio, il capitano di vascello Aldo Dolfini, all’arrivo. Smistati per i capoluoghi pugliesi, la maggior parte dei migranti resterà tra i due mari, dove la situazione è al collasso, completamente affidata alle tasche vuote di un Comune che sta uscendo ora dal dissesto. Per questo i consiglieri comunali tarantini, in un documento congiunto, hanno chiesto, per iscritto, alle autorità di “rispettare le rispettive competenze, di mettere a disposizione dei migranti tutte le strutture, militari e non, utili a rendere una risposta dignitosa all’emergenza profughi, e di stanziare risorse utili alla gestione dell’emergenza”.

Tanti Paesi un solo Dio. Il volto amorevole di questa intricata questione internazionale è quello dei tantissimi volontari che si alternano nelle strutture adibite alla prima accoglienza, in turni anche di dodici ore. Se il paradiso potesse essere raffigurato, avrebbe gli occhi di chi attende l’arrivo dei minori non accompagnati sistemando t-shirt e pantaloncini, spazzolini e dentifrici e il suono di quell’applauso spontaneo e del “Welcome in Italy” che fa sorridere i nuovi arrivati. Nel centro in cui vengono accolti i minori soli, i cartelloni parlano chiaro. Sogni scritti sulle pareti. Ciascuno il suo. C’è chi vorrebbe fare l’elettricista e chi il falegname. E poi c’è chi vorrebbe diventare “il re d’Italia”, ignaro che la monarchia da tempo non c’è più. Tante bandiere diverse campeggiano insieme in uno stesso cartellone composto a tante mani, con al centro un “grazie Taranto”. Sono stati fatti da chi per primo è arrivato e ora è già lontano, serviranno ai nuovi per capire che lì non ci sono più guerre né violenza. E allora non stupisce vedere gli adolescenti musulmani pregare nei grandi stanzoni sui loro tappetini e osservare il Ramadan, mentre in giardino, altri coetanei si riuniscono e preparano i canti in inglese per la Messa domenicale. E poi di nuovo tutti insieme per assistere alle partite del Mondiale.

La “meraviglia” della maternità.
 Ci sono anche storie come quella di Marvellous, che in italiano significa “Meraviglia”. Lei è la nuova arrivata nel centro di accoglienza gestito dall’Abfo (Associazione benefica Fulvio Occhinegro). Tre chili, sua madre Tobi, nigeriana di 25 anni, ha chiamato così la sua bambina, che ce l’ha fatta nonostante l’orrore della guerra, la fuga nel deserto, la mancanza di un papà, di cui si sono perse le tracce strada facendo. Nata a Taranto, Marvellous con la mamma ha solcato il mare su una “carretta” e non ha fatto storie, nonostante sette giorni di viaggio senza ricevere né acqua né cibo. E poi c’è Aisha (nome di fantasia, ndr), 17 anni, che è giunta al porto mercantile ionico incinta di otto mesi. Non è chiaro se il bambino che porta in grembo sia frutto di una violenza, una sorta di “rituale dell’orrore”, prima di immetterla nel mercato della prostituzione. Per Aisha la rete ha dato il meglio. Decine di persone, nel centro di prima accoglienza dove ha sostato per una settimana, le hanno portato tutine e pannolini, biberon e passeggini, perfino un manuale in inglese sulla gravidanza e una “camicina della fortuna”, da far indossare al neonato, dopo il parto, in segno di buon augurio. Aisha, appena sbarcata, non ha chiesto molto per sé: una doccia e una Bibbia, che le è giunta insieme a rosari e immaginette.

Dove c’è amore c’è casa. E poi ci sono quelli che sono arrivati troppo stanchi per farcela da subito. E la stanchezza è divenuta dolore alle ossa, oltre che al cuore. Così capita che Mohammed, 17 anni, per qualche giorno ricoverato in ospedale, a qualche volontario che gli fa visita, dica: “Voglio tornare a casa”. E per casa non intende la lontana Gambia ma un centro di prima accoglienza dove i materassi sono ancora per terra e si dorme in tanti in uno stanzone. O che Celestine, 16 anni, si commuova per una carezza inaspettata, fatta mentre una flebo lo reidrata. Oppure che i migranti che si trovano nel palazzo dello sport da qualche settimana, s’improvvisino volontari con chi arriva dall’ultimo sbarco. Ci sono pasti da distribuire e pantaloncini in più da cedere. “Il peggio è passato”, sembrano dire. E guardando il cielo stellato, vola una preghiera.

 

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