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A tu per tu con Don Marcos Farfan

Don Marcos

Di Alessandra Mastri

GROTTAMMARE – Oggi parliamo con Don Marcos, origine messicana, che ormai da tre anni presta servizio, come aiuto sacerdote, il fine settimana presso la parrocchia Madonna della Speranza e che a fine Giugno lascerà l’Italia per tornare nella sua diocesi in Messico, con molto dispiacere da parte di tutti i parrocchiani della comunità grottammarese, i quali ormai lo consideravano più che una guida spirituale un vero e proprio amico e confidente.

Raccontaci di come e quando hai deciso di partire dal Messico per venire a studiare a Roma.
“Dicembre 2010, mi è stato comunicato dal rettore del seminario dello Yucatan l’invito ad andare a Roma per conseguire la licenza in Scienze Sociali. Questo invito  ha suscitato in me dubbi e paura, ma anche la certezza che sarebbe stata un’esperienza positiva sia per me che per la mia chiesa.
Dopo tanto tempo, necessario per l’organizzazione, sono arrivato in Italia il 27 agosto per iniziare un corso di italiano, che per me è stato molto impegnativo.”

Come ti sei trovato a così tanti chilometri da casa tua in una società completamente diversa, dalla lingua alla cultura?
“In principio non mi sono trovato molto bene, per un fenomeno che è scientificamente spiegabile, ma affettivamente difficile da accettare. Durante il primo periodo facevo un continuo confronto della cultura italiana con quella messicana, la vita, la musica, l’atteggiamento delle persone, mi sembravano peggiori rispetto a quelli a cui ero abituato nella mia terra; mi lamentavo in continuazione.

Dopodiché mi è stata offerta l’opportunità di andare a prestare servizio presso la parrocchia Madonna della Speranza, mi è sembrata subito una vera sfida, per affrontare in modo diretto i miei pregiudizi ed avere una comunicazione con la cultura italiana, che per me era sconosciuta.

Ho iniziato pian piano ad avere un vero dialogo con la cultura italiana, e tutte le mie convinzioni hanno iniziato a cambiare, le abitudini messicane erano buone, ma quelle italiane non sono poi così male. Ho cominciato così a capire ed amare questo popolo.

Con il passare del tempo mi arricchivo sempre di più, pian piano la cultura italiana è entrata a far parte di me, adesso mi sento metà italiano e metà messicano, e ancora adesso non ne sono molto consapevole, me ne accorgo davvero quando, parlando con la mia famiglia, mia madre mi rimprovera perché parlando italiano lei non mi capisce.
Questa esperienza mi ha totalmente cambiato la vita.”

Parlaci un po’ del tuo percorso di studi e della tesi conclusiva che hai scritto e che presenterai il 27 Giugno in parrocchia.
“ Il mio percorso nella Pontificia Università Gregoriana  è durato tre anni, uno di baccalaureato e due di licenza in Scienze Sociali. Per me è stata una vera sfida, perché gli argomenti principali affrontati sono stati l’economia e la politica.
La mia tesi è nata dall’inquietudine di dare una risposta vera, dal punto di vista della chiesa, al problema della povertà. Mi sono reso conto che la problematica esiste a livello globale, e che ogni cosa che facciamo ha ripercussioni in tutto il mondo; pertanto il cambiamento deve scaturire da uno sforzo comune, promuovendo una cultura di cui la dignità della persona ed il bene comune ne siano i cardini.”

Come ti sei trovato con noi parrocchiani di Madonna della Speranza e con Don Anselmo?
“Madonna della Speranza è un laboratorio di speranza, per darne e riceverne.
È stata la mia famiglia, il mio conforto, la mia fortezza, il mio tutto; in principio avevo pensato di rinunciare pensando di non farcela per il pesante impegno dell’università, ma andare in parrocchia è stato un motivo per approfondire ancora meglio i miei studi.
Oggi, che sono alla fine di questa esperienza, mi rendo conto che la parrocchia è stato un dono di Dio per confortarmi lungo il mio percorso.
Madonna della Speranza non è un’istituzione senza volto, sono persone specifiche con un nome, un viso, ed una storia che si sono intrecciate con la mia vita.”

Sei un po’ dispiaciuto di lasciare l’Italia tra qualche settimana?
“Due cose sono difficili per me nella vita, la prima è l’iniziare, perché non si conosce nessuno, l’altra è il finire perché tutti diventano conoscenti e persone vicine; oggi devo dire arrivederci e passare il mio testimone ad un altro prete, non è così facile, ma è parte della vocazione, dove aprire le braccia per accogliere, e lasciare e partire è un compito di ogni giorno.”

Che ricordo porterai con te di questi tre anni nella nostra parrocchia?
“Il ricordo più bello che porterò a casa è l’esperienza di fede e famiglia, perché ogni fine settimana è stato un arricchimento, abbiamo pregato, pianto, litigato, perdonato e ci siamo soprattutto donati l’uno all’altro, come in una vera e propria famiglia.”