Di Nicola Salvagnin
Sta diventando difficile capire l’Italia, o comunque l’Italia sembra essere altro rispetto a come la disegnano istituto demoscopici, enti di ricerca, sociologi e statistiche. Fioriscono tabelle, fioccano numeri, piovono commenti appresso agli stessi: poi apri le finestre e ti chiedi quale Italia stiano guardando.
Non parliamo delle previsioni politiche: sono diventate meno attendibili di quelle del tempo che fa tra sette giorni. Dicono gli esperti che le ultime topiche siano causate da come vengono fatte le domande: si presume in italiano, meglio ancora se chiare e invece no. Si dovrebbe girare un po’ intorno, più allusivi, che ne pensa degli insetti e di Grillo?
Sarà, ma la perplessità aumenta leggendo i report degli istituti di statistica, le analisi e le indagini economiche. Insomma numeri, la cui libera interpretazione dà spazio a fiumi azzurri e colline e praterie. L’ultimo frutto dell’Istat – ma l’Istat, come Rocco, ha tanti fratelli con lo stesso dna – parla di fine della recessione ma pure di un Paese in stagnazione, che non torna indietro ma non avanza e comunque continua ad impoverirsi e allora la stagnazione tanto meglio non deve essere rispetto alla recessione. Un’Italia che soffre per la scarsa produttività, dovuta a ben 6,3 milioni di italiani che potrebbero lavorare ma non lo fanno per svariate cause. La principale la individuiamo noi: non c’è lavoro, una maggiore produttività sarebbe quindi pura fantasia. “Uno spreco di risorse colossale”, dice l’Istat. Oddio, spreco se ci fosse da lavorare e si preferisce invece oziare.
Ma non sembra l’ozio la causa del continuo impoverimento di una società italiana che, stando alle statistiche, ha tre aziende su dieci che se la cavano. E le altre? Se la cavicchiano, magari chiudono il bilancio in rosso perché fiscalmente conviene; è chiaro che un’economia che realmente ha due aziende su tre messe male, la troviamo più nel Sahel che tra il G8. Perché se guardiamo ai numeri, a certi numeri, davvero si va ad urlare in piazza e sui giornali che c’è tantissima gente che non arriva che dico a fine mese: nemmeno alla terza settimana.
Si morirà di fame, in Italia? Si può rimediare chiedendo aiuto con uno smartphone (la più alta percentuale al mondo di proprietari di smartphone, qui) o mangiando cibo per gatti (il consumo cresce a due cifre percentuali ogni anno).
Non si vuole scherzare qui sulle disavventure di milioni di pensionati, anche se l’Istat dice che gli unici a trascinare i consumi, in Italia, sono proprio loro… i pensionati. Ma non erano alla fame? Non stanno tenendo in piedi le famiglie, aiutando i figli, svenandosi per far quadrare i cerchi? Forse sono spendaccioni perché fanno la spesa per i figli disoccupati. Ma, ancora una volta, certe foto risultano inevitabilmente sfuocate e si fatica a capire chi-come-che cosa.
Si pensi al Mezzogiorno, che pure versa in condizioni difficilissime. Ma se leggiamo i numeri e le statistiche, il problema collettivo non dovrebbe essere il contenimento della pancia in vista della prova-costume, quanto il riempimento del piatto almeno una volta al dì. Si vede che in quell’unico pasto ci facciamo fuori un cinghiale a testa, e passiamo per spirito di solidarietà un prosciuttino ai vicini di casa: dice infatti l’Istat che in una famiglia su cinque, al Sud, non c’è nessuno che lavora.
Pare uno stereotipo leghista, poi bisognerebbe mettere a fuoco la clamorosa percentuale con il binocolo della realtà: che vuol dire “famiglia”? Anche un single lo è. Che vuol dire “lavora”? I pensionati sono inattivi ma non senza redditi. E non dimentichiamo i lavoretti o gli affitti in nero che colmano il buco che c’è tra un Sud reale in grave difficoltà, e un Sud statistico alla fame. Nera.
Insomma è chiaro che i numeri servono tantissimo, ma gli italiani sono più complessi – e un pochino oscuri – rispetto alla voglia di imbrigliarli che hanno i numeri stessi. Non è un caso che “dare i numeri”, per noi, ha sempre significato: “parlare a vanvera”.

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