Di Andrea Soffiantini

C’è una grande città senza confini, disegnata su un pentagramma di sole note acute o gravi. È una città in cui convivono gli uomini d’affari e le ombre dei clochard, il vocìo confuso degli happy hour e la silenziosa disperazione di uomini e donne ai margini delle strade e della vita. Una città in cui le complessità sono state frammentate, ridotte a slogan, formule, sciocchezze. E che talvolta dimentica chi è in difficoltà. È su questa grande città che si sono accesi i riflettori del Festival della comunicazione di Lodi ieri pomeriggio all’Auditorium Tiziano Zalli nell’incontro con i direttori del “Corriere della Sera”, Ferruccio De Bortoli, di “Famiglia Cristiana”, don Antonio Sciortino e di “Avvenire”, Marco Tarquinio, invitati dal direttore de “il Cittadino”, Ferruccio Pallavera, a rispondere alla domanda “Come comunicare la presenza del povero o del ‘diverso’ della porta accanto?”. Ed è stato un dibattito che è volato “alto” rispetto agli slogan e ai luoghi comuni.

Imparare a raccontare il capitale sociale. “È vero – ha osservato Ferruccio De Bortoli – noi fatichiamo a raccontare il bene. Eppure in questo Paese, nonostante tutto, non mancano elementi di positività. Mi domando perché i freddi estensori di statistiche non diano mai conto anche dello straordinario capitale sociale di questo Paese, fatto di volontariato, di economia civile, di persone che sentono il dovere morale di fare del bene. A quella realtà che ha contribuito a dare relativa stabilità al Paese in questi anni di crisi. A un Paese che ha dentro di sé la cultura dell’accoglienza, che non si è ancora abituato all’idea della multietnicità, ma che certo non è razzista. Ecco, dobbiamo imparare a raccontare questo capitale sociale, ma anche ad interrogarci su come questo patrimonio possa essere valorizzato”.

Il silenzio della foresta. Si dice che un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce. Eppure, ha avvertito don Antonio Sciortino, l’informazione dovrebbe imparare a raccontare il silenzio della foresta: “Dobbiamo imparare a raccontare la vita perché non tutto è buio, non tutto è disperazione – ha detto il direttore di ‘Famiglia Cristiana’ -. Dobbiamo dire basta alla pornografia mediatica, a quello che io chiamo il turismo dell’orrore, cioè di chi va a farsi fotografare sul luogo della tragedia. Questa non è informazione. Possibile che parlando del caso di Sarah Scazzi non sia stata spesa una parola per la povera vittima e che l’attenzione sia stata puntata solo sugli aspetti morbosi della vicenda? Possibile, se parliamo d’immigrazione, che gli stranieri facciano notizia solo se sono autori di efferati delitti? Eppure ci sono tante storie d’integrazione che potrebbero essere raccontate. E anche tante storie di povertà, perché è la povertà l’emergenza dell’Italia, dove il dieci per cento della popolazione possiede più del 50 per cento della ricchezza nazionale, dove il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è pari al guadagno di mezzo milione di operai. Raccontare le storie di povertà significa denunciare queste situazioni. Per farlo ci vuole coraggio. I giornali non devono rinunciare alla denuncia, non devono essere al servizio dei potenti. Ma semplicemente raccontare la verità”.

La verità è nella relazione. Concetti condivisi da Marco Tarquinio: “I giornali che in tutti questi anni hanno esasperato i titoli e hanno involgarito la stampa italiana, hanno bruciato la credibilità di chi fa questo mestiere – ha osservato il direttore di ‘Avvenire’ -. C’è un modo di informare frettoloso, superficiale, che quasi mai prende in considerazione ciò che di positivo può contenere anche una brutta vicenda. Non c’è voglia di andare alla profondità dei problemi. Io dico che la grande sfida contro la povertà sarà la capacità di trovare le parole con le quali capirsi. Parole saldamente comuni. Perché, come ci ha ricordato Papa Francesco, la verità è nella relazione tra le persone”.

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