Di Bruno Desidera

Il 25 maggio si vota anche in Colombia per il primo turno delle elezioni presidenziali. Ma in gioco, più ancora della scelta dell’inquilino di Palazzo Nariño, a Bogotà, è il futuro del processo di pace avviato per mettere fine ad uno dei conflitti interni più lunghi (prosegue ininterrottamente da una cinquantina d’anni) e sanguinosi di tutto il pianeta. Una situazione che ha fatto diventare questa terra, strategica per posizione geografica e straordinariamente ricca di risorse economiche e naturalistiche, il Paese della violenza e della paura per antonomasia, dei narcotrafficanti, dei sequestri e dei rapimenti (dal 1958 si stima che le vittime del conflitto siano state 220mila e che le persone scomparse più di 250mila). Il Paese dei cosiddetti “desplazados”, quantità infinite di popolazioni (la stima è di 5 milioni) che si spostano da una parte all’altra del Paese, perché minacciate e in cerca di lavoro o di una vita più tranquilla e dignitosa.

Le trattative con le Farc. Il presidente della Colombia Juan Manuel Santos, eletto nel 2010 al ballottaggio con un ampio consenso, durante il suo mandato ha deciso di porre fine alla linea dura portata avanti contro la guerriglia dal suo predecessore (e grande elettore) Álvaro Uribe. Ha così puntato tutte le sue carte sul processo di pacificazione del Paese e sul buon esito delle trattative iniziate lo scorso anno a L’Avana, capitale di Cuba, con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), il maggiore gruppo della guerriglia. Proprio alla vigilia del voto, lo scorso 16 maggio, le trattative hanno fatto segnare un importante passo in avanti: le parti hanno sottoscritto un accordo da considerarsi storico, in cui le Farc s’impegnano a dissociarsi completamente dal narcotraffico dopo la fine del conflitto. L’accordo su questo punto fa seguito a quelli raggiunti nei mesi scorsi su altre due questioni: l’equa distribuzione delle terre e il possibile futuro politico delle Farc, se queste accetteranno di deporre le armi. Il 16 maggio le Farc hanno anche proclamato il “cessate-il-fuoco” per il periodo delle elezioni.

Testa a testa dei sondaggi. Una boccata d’ossigeno per Santos, che dopo aver vinto di misura le elezioni Legislative di marzo, nei sondaggi è testa a testa con Óscar Iván Zuluaga, sostenuto proprio dall’ex presidente Uribe e dal Centro Democratico, il partito creato dall’ex presidente dopo la clamorosa rottura con Santos. Uribe e Zuluaga accusano Santos di cedimento verso i guerriglieri e terroristi e di aver dato loro fiato quando erano ormai messi all’angolo. La popolazione è confusa, anche per il fatto che negli ultimi mesi le violenze e gli attentati delle Farc sono proseguiti e le trattative sono andate avanti lentamente. Così si assiste ad uno scontro inedito, in un panorama politico che vede da decenni il fronte moderato vincere le elezioni. Una lotta senza esclusione di colpi, combattuta a colpi di twitter, social network molto utilizzato dai contendenti, destinata molto probabilmente a proseguire nel ballottaggio. Poche chances invece per gli outsider: il Verde Enrique Peñalosa, la conservatrice Marta Lucía Ramírez e Clara Lopez del Polo democratico.

La Chiesa per la pace. La Chiesa, attraverso la Conferenza episcopale, ha incoraggiato il processo di pace. Nei mesi scorsi aveva presentato il rapporto “Proposte minimali per la riconciliazione e la pace in Colombia”. Nei momenti di maggior tensione tra le parti il cardinale Rubén Salazar, arcivescovo di Bogotà, ha sollecitato il governo e i rappresentanti delle Farc a proseguire nelle trattative: “Nel Paese dobbiamo essere consapevoli che abbiamo bisogno di mettere fine al conflitto armato, per questo abbiamo chiesto di continuare con il dialogo”, aveva detto. Ancora in febbraio la Conferenza episcopale colombiana aveva elaborato un documento, intitolato “Votiamo pensando al bene comune”, nel quale esprimeva il desiderio di una “Colombia riconciliata e in pace” ricordando, tra i punti di cui tenere conto per la scelta elettorale, anche la giustizia sociale, la lotta alla povertà e alla corruzione, la difesa della famiglia. Una nota della Conferenza episcopale colombiana nei giorni scorsi ha riportato le parole di Papa Francesco, lo scorso 27 aprile, al ministro degli Esteri Maria Angela Holguin, venuta a Roma per la canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII: “Dica al presidente di perseverare nel processo di ricerca della pace nel Paese”.

Un cammino senza alternative. Certo, nessuno si illude che il processo di pace sia semplice e scontato. Gli esperti, spiega padre Angelo Casadei, missionario della Consolata a Bogotà, “affermano che se ciò dovesse essere raggiunto per i primi tempi ci sarà un aumento della violenza interna perché da ambo le parti la base non accetterà questa situazione: né i gruppi guerriglieri, né i gruppi paramilitari e parte dell’esercito, forze, queste ultime, cresciute negli anni della presidenza Uribe”. Ma nonostante i rischi, il processo di pace sembra l’unica strada per far uscire il Paese dalla guerra permanente e poter puntare a una più equa ripartizione delle risorse, proprio nel momento in cui il Paese – terza economia regionale dopo Brasile e Messico – appare in forte crescita economica e in grado di mettere in campo progetti infrastrutturali di ampio respiro.

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