BalcaniDi Alessio Facciolo

Una catastrofe che ha spazzato via gli argini dei fiumi, ma anche le barriere etniche che dividono e insanguinano le pagine della turbolenta storia balcanica. È un’alluvione senza precedenti quella che lo scorso 16 maggio ha colpito il cuore dei Balcani: centinaia di villaggi di Bosnia, Serbia e dell’est della Croazia sono rimasti completamente sommersi dalle piene della Sava e dei suoi affluenti. Con un bilancio da bollettino di guerra: quasi 50 i morti accertati, oltre un milione di persone coinvolte, incalcolabili i danni provocati a case, raccolti e animali (fonte primaria di sostentamento, in una zona come questa prevalentemente rurale). A spaventare è anche l’emergenza mine segnalata: gli ordigni esplosivi, ancora sotterrati dai tempi dell’ultimo conflitto, sono stati infatti fatti riemergere dalle piene e trasportati dall’acqua in nuovi luoghi.

Fratelli dei Balcani. L’acqua sporca della Sava ha però paradossalmente avuto un effetto forse inaspettato: quello di grattar via certe vecchie ruggini, riavvicinando popoli da sempre “un po’ fratelli, un po’ coltelli” e scatenando una gara di solidarietà capace di abbracciare tutta la penisola balcanica. In Bosnia nelle cittadine di Olovo, Maglaj, Zavidoviæi e Doboj (quest’ultima nella Repubblica Srpska, entità a maggioranza serba fra le tre che compongono lo stato bosniaco dopo gli accordi di Dayton del 1995) musulmani, cattolici ed ortodossi sono scesi in strada a prestare soccorso agli sfollati senza fare distinguo di etnia o religione. A mobilitarsi a favore dei tre paesi alluvionati (oltre a buona parte della comunità internazionale) tutta la ex Jugoslavia: uomini e mezzi dell’esercito montenegrino (oltre a più di 200 volontari) si sono riversati nelle campagne per dare aiuto agli sfollati; altri soccorritori sono arrivati dalla Macedonia, dove nella capitale Skopje sono stati allestiti punti di raccolta per cibo e generi di prima assistenza; la Slovenia ha inviato una squadra speciale, esperti e veicoli nelle zone più colpite; persino la Croazia, trovatasi anch’essa coinvolta seppur con danni minori non ha lesinato aiuti ai paesi vicini.

L’offerta del Kosovo. Una mano a Serbia e Bosnia è stata tesa anche dal piccolo Kosovo, l’ultimo nato fra gli stati balcanici e l’unico, fra quelli sui territori della ex Jugoslavia, a maggioranza albanofona. A proporre l’aiuto per primi i giovani della Kosovo Youth Atlantic Treaty Association (Kyata): “Nel contesto di una sincera cooperazione regionale – si legge sul comunicato diffuso dall’organizzazione – proponiamo al ministro delle forze di sicurezza del Kosovo di mandare delle squadre speciali di ricerca e soccorso e un team di dottori”. Mettere per una volta da parte la politica, insomma, e rancori mai del tutto sopiti, a servizio del bene comune. Il ministro kosovaro Agim Ceku, alla proposta dei Giovani Atlantici, si è detto disponibile a mandare i reparti nelle zone alluvionate, a patto che a farne richiesta fossero i due paesi interessati. I quali, però, contrariamente con quanto fatto con gli altri “cugini” balcanici, hanno preferito rispedire l’offerta al mittente. Lo stato giuridico del Kosovo, protagonista negli anni ’90 di una sanguinosa guerra con la Serbia, non è univocamente condiviso: se molti paesi, tra i quali l’Italia, riconoscono la sua indipendenza dichiarata nel 2008, non sono dello stesso avviso i vicini di casa di Belgrado e Sarajevo. Per il governo serbo il Kosovo è ufficialmente una loro provincia autonoma; per la retorica nazionalista Pristina e dintorni sono i luoghi della battaglia della “Piana dei merli”, dove il principe Lazar a comando di un esercito di cristiani morì nell’uccidere il “turco invasor” (il sultano Murad I) dando il “la” all’espansione ottomana, ma immolandosi per la patria serba. Una storia datata 1389, ma che scalda ancora gli animi e il sangue dei nazionalisti a nord dell’Ibar, fiume che separa il sud del Kosovo a maggioranza albanese e il settentrione “ribelle” di etnia slava.

Gettare un ponte sull’abisso. Neanche la Bosnia ha mai riconosciuto l’indipendenza di Pristina: a pesare il njet dei membri serbi del parlamento perlopiù appartenenti alla Repubblica Srpska (RS). Nel Kosovo a maggioranza ortodossa, intanto, la gente raccoglie viveri e vestiti da mandare rigorosamente in Serbia o, al limite, ai fratelli della RS; nel sud gli ultrà albanofoni riattizzano l’odio dagli spalti, esponendo durante partite di calcio o basket striscioni inequivocabili come “Pray for Bosnia, death for Serbia”. Una squadra di soccorso kosovara non avrebbe cambiato le sorti dei villaggi sommersi né modificato gli equilibri politici della penisola; ma accettare il suo aiuto, forse, avrebbe avuto lo stesso effetto di quelle notti piene di fumo, acqua e rakija descritte da Ivo Andric (premio Nobel jugoslavo) nel suo capolavoro “Il ponte sulla Drina”, quando già secoli fa le piene allagavano i Balcani e turchi, cristiani ed ebrei si ritrovavano in collina, insieme, profughi di una città sommersa dal fango: “la forza degli elementi e il peso della comune calamità hanno avvicinato questi uomini e, almeno per stasera, hanno gettato un ponte sull’abisso che li separa”.

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