Dodici anni dopo, si riapre una pagina dolorosa della vita repubblicana. Quella della morte del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo del 2002. La Procura della Repubblica di Bologna ha riaperto l’indagine, contro ignoti, con l’ipotesi di omicidio per omissione. Se davvero verrà confermato che qualcuno sapeva dei pericoli che correva il professore e che non dette ascolto alle sollecitazioni e alle segnalazione pervenute, non attribuendogli la tutela necessaria in questi casi, allora davvero la storia di quella pagina di vita pubblica va riscritta. In tal senso, peraltro andrebbero le recenti dichiarazioni rese dall’allora capo della segreteria al Viminale, Luciano Zocchi: “Claudio Scajola sapeva del pericolo”.
Le indagini ci aiuteranno a capire davvero cosa è accaduto, ma in queste ore il nostro pensiero va alla famiglia e agli allievi del giuslavorista, per i quali le notizie di oggi sono un tuffo nel dolore. Biagi fu ucciso solo per aver scritto una riforma del lavoro che introduceva, nel nostro sistema ingessato, elementi di flessibilità in grado di ampliare l’offerta di lavoro. Il mondo cattolico, soprattutto in certe componenti, fu molto critico nei confronti del professore. Espresse giudizi molto aspri dei quali qualcuno forse ha dovuto in qualche modo pentirsi. Altri cattolici (anche Biagi era un credente) lo difesero, vedendo nel suo impegno la cifra di una svolta riformista nel mondo del lavoro. Comunque rispettosa della dignità umana.
Oggi tutti noi aspettiamo la verità per un uomo giusto che avrebbe meritato di vivere, come lo avrebbero meritato Massimo D’Antona ed Ezio Tarantelli. I terroristi ci hanno strappato tre lucide intelligenze. Non lasciamoci strappare la memoria delle loro vite buone.

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