Di Francesco Bonini
Magari sarà più facile trovare le motivazioni nei 4.095 Comuni, o nelle due Regioni, che il 25 maggio sono chiamati al voto: una buona amministrazione fa la differenza competitiva e della qualità della vita, in tempi di risorse decrescenti, per cui non si può delegare a nessuno la scelta dei propri più diretti rappresentanti. Eppure, anche nella restante metà d’Italia, in cui i cittadini voteranno solo per il Parlamento europeo, votare si deve, nonostante tutto.
Votare si deve nonostante l’Unione europea faccia fatica e facciano fatica i cittadini a riconoscersi nelle dodici stelle gialle in cerchio in campo blu, anche se ormai non ne possono fare a meno. Così come dell’euro. Basta guardarsi nel borsellino: nessuno ormai può più trovare solo monete del proprio Stato: siamo tutti connessi e interdipendenti. Anche se ci sentiamo sempre più lontani. L’Unione è una realtà, che ha fatto del suo profilo, idealmente alto ma politicamente modesto, la propria identità: salvo scoprire, in anni recenti, dopo una serie di allargamenti che ora arrivano a 28, come questa apparente contraddizione generi problemi inediti, che questa tornata elettorale sembra amplificare.
Votare dunque si deve, proprio per accompagnare questo processo di adeguamento dell’idea al fatto, a livello di istituzioni dell’Unione. È un processo necessariamente lungo, ulteriormente complicato in questo momento di crisi.
E qui c’è il secondo punto. Votare si deve nonostante il clima di crisi della politica e della partecipazione, con il proporzionale sviluppo della protesta, che percorre tutti i 28 elettorati dell’Unione.
Ci sono cinque candidati per la guida della Commissione, espressione delle cinque famiglie politiche “ufficiali”: popolari, socialisti, liberal-democratici, verdi e sinistra. I partiti e i movimenti euroscettici tradizionali non si sono curati di presentare alcun candidato, così come i nuovi movimenti, non collegati a livello europeo, ma ciascuno espressione di singoli, diversi malesseri nei ventotto Stati dell’Unione. Anche questo significa pure qualcosa. Votare dunque si deve, nonostante tutto, anche per scegliere l’indirizzo politico. Necessariamente, infatti, il futuro dell’Europa passa per la costruzione di un sistema politico europeo. E per la sua coerenza con i principi di fondo, per cui in particolare proprio i cattolici, come ribadito in un bel documento dell’episcopato europeo dello scorso mese di marzo, devono impegnarsi, prima di tutto con la partecipazione.
In quel documento si sottolineava anche la cruciale questione della partecipazione dei giovani, che tutti i sondaggi segnalano tentati dalla protesta fine a se stessa. In effetti c’è oggi una grande questione sull’identità, che, se non ha risposte di alto profilo, rischia di essere risolta facendo ricorso a surrogati purchessia. E questo forse è il vero punto culturale e politico di questa tornata elettorale. Per l’Europa e anche per l’Italia.

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