Cala il Pil, ma si vive più a lungo. Infatti l’economia e i soldi non sono tutto. La vituperata Italia (più amata all’estero che dagli stessi italiani, perché “nemo propheta in patria”) si colloca al terzo posto al mondo per aspettativa di vita, bruciata sul filo di lana solo da Svizzera e Singapore. Nel Belpaese – attesta il World Health Statistics 2014 dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – si può sperare di arrivare fino a 82,60 anni; nella vicina Confederazione elvetica il dato è a 82,90, nel Paese asiatico a 82,65.
La medaglia di bronzo assegnata all’italian way of life comprende un mix di ricette, non sempre segnalate dalle statistiche, che vanno dalla dieta mediterranea all’ancora diffusa e proverbiale “serenità” tricolore, compreso un discreto sistema sanitario che non lascia nessuno, o quasi, senza l’assistenza necessaria (elemento tutt’altro che scontato in altri Paesi, Stati Uniti in primis). Non va nemmeno trascurata, per il caso-Italia, la distribuzione della popolazione in una miriade di comuni e centri minori, talvolta tipici dell’ambiente rurale, altre volte arrampicati sulle pendici di qualche bella collina, che rendono l’esistenza meno tesa, più “slow”, un poco più al riparo dalle grandi cause di morte che colpiscono oggi l’umanità, specie le nazioni con il Prodotto interno lordo più elevato: malattie cardiache, infezioni respiratorie, ictus.
Insomma, vivere bene fa vivere più a lungo, salvo, ovviamente, fare i conti con gravi patologie impreviste, incidenti o altre disgrazie che purtroppo non mancano.
Per l’Oms una bambina che nasce oggi in Italia può addirittura sperare di campare fino a 85 anni, mentre i coetanei maschi si attestano attorno agli 80 anni (non è un caso – lo dicono le statistiche – se le vedove sopravanzano di gran lunga i vedovi). Sempre stando ai numeri, si vive a lungo anche in Islanda, Australia, Nuova Zelanda e Spagna. Ma nessuno, proprio nessuno, batte le donne giapponesi che addirittura si prenotano fino all’87° compleanno.
Se le tabelle Oms inducono a qualche segnale di speranza e di legittimo orgoglio italiano, richiamano però a non trascurare il fatto che nella parte povera del pianeta – che va dai Paesi sottosviluppati alle periferie delle megalopoli del mondo ricco, Europa compresa – si muore ancora di fame, per mancanza di cure mediche o per malattie trasmissibili (Aids in testa). Lo ribadisce Margaret Chan, direttore generale Oms, che sottolinea: “A livello globale i valori medi circa l’aspettativa di vita sono 73 anni per le donne e 68 per gli uomini”; ma se un bebè nato in un Paese occidentale può attendersi di raggiungere i 76 anni, uno che nasce in una nazione povera quasi certamente non supererà i 60. Con una ulteriore specificazione: “L’aumento della vita media mondiale si deve fra l’altro al fatto che sempre meno bambini muoiono prima dei cinque anni. Ma ci sono ancora differenze troppo grandi fra i Paesi ricchi e quelli a basso reddito”.
Dunque in Italia, Svizzera e Singapore occorre ormai fare i conti con un esercito di anziani che, necessariamente, richiederanno attenzioni, affetto e cure crescenti; in Eritrea, Zimbabwe, Niger o Malawi, ma anche in India o Brasile, rimane invece la necessità di assicurare un’esistenza dignitosa a milioni di bambini. Perché la speranza di (una bella) vita sostituisca definitivamente il Pil nella misurazione della felicità globale.

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