Ma cos’hanno i tifosi italiani, anzi non “tutti” i tifosi ma solo quel consistente gruppo di appartenenti alle tifoserie più violente e socialmente pericolose, per arrivare ai picchi di violenza registrati sabato scorso a Roma? Non solo ci sono stati scontri tremendi, ampiamente documentati dai media, ma si è arrivati pure a picchiare selvaggiamente chi presumibilmente aveva sparato. E purtroppo per il napoletano di Scampia, Ciro Esposito, 30 anni, colpito da un proiettile alla spina dorsale, le notizie al momento non sono ancora tranquillizzanti: rischia la paralisi e non è fuori pericolo.
Subito dopo gli scontri abbiamo ascoltato un profluvio d’interventi, da parte di politici e non: c’è chi invoca il “daspo” a vita per i facinorosi recidivi, chi inasprimenti di pena, chi schieramenti di truppe quasi fossimo in guerra. Il ministro dell’Interno Alfano ha annunciato una durezza senza precedenti, per reprimere pesantemente i violenti e scoraggiare gli epigoni. Tutti pronunciamenti doverosi, vista la figuraccia che abbiamo fatto a livello mondiale.
Fa quasi tenerezza vedere come appaiono “addomesticati” i tifosi inglesi, olandesi e di altri Paesi europei dove addirittura non ci sono quasi barriere tra il campo di gioco e gli spalti. Basterebbe un “saltello” alle transenne alte mezzo metro, per invadere il campo; invece nessuno salta, nessuno lancia oggetti o bombe carta o bottiglie di vetro. Perché da loro è così e da noi no? Questa è la domanda di fondo. Tutti saremo d’accordo che reprimere la violenza non solo è necessario, ma è un dovere dello Stato democratico per recuperare autorevolezza e non sembrare che “scenda a patto” con le tifoserie, come pare possa essere avvenuto a Roma (pur tra le smentite ufficiali delle autorità). Ma la vera azione è un’altra: quella di educare.
Qui sta il punto: come educare? Dove? In che modo? Prima che un ragazzo vivace divenga un violento, chi deve insegnargli la bellezza della sfida sportiva e il controllo dei propri stati d’animo? Genitori, scuola, parrocchie, associazioni, anche gli stessi “club” avrebbero non solo il dovere, ma pure l’interesse a coltivare le virtù relazionali. Pena, il decadimento d’immagine cui il calcio italiano è arrivato, e – alla fine – il crollo dello stesso business. Chissà che, toccati sugli interessi economici, alla fine i club sportivi per primi non puntino a una “educazione” in stile più civile e, perché no?, più europeo!

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *