Di Mauro Ungaro
Il 1° maggio 2004, la Slovenia entrava ufficialmente nell’Unione europea. Veniva così assestato un colpo mortale al confine che per oltre cinquant’anni aveva lacerato il territorio attraversato dall’Isonzo dove per secoli avevano convissuto popolazioni italiane, slovene, friulane: per la libera circolazione si sarebbe dovuto attendere ancora un po’ di tempo visto che l’adesione di Lubiana all’Area Schengen sarebbe avvenuta solo nel dicembre 2007.
Migliaia di persone riempirono, in quella piovosa notte primaverile, la piazza della Transalpina attendendo lo scoccare fatidico della mezzanotte. La sensazione fra i presenti era di vivere un avvenimento storico destinato a rappresentare un’opportunità unica di sviluppo e di ripresa per quelle aree che alla fine della seconda guerra mondiale avevano dovuto subire nella propria quotidianità e nel profondo del proprio animo il peso di una linea di frontiera imposta dall’idiozia delle ideologie.
La realtà, però, è che, al di là delle dichiarazioni di principio, molte delle attese si sono trasformate in pie illusioni.
Il confine, indubbiamente, oltre che dividere aveva offerto sino ad allora anche notevoli opportunità economiche a questo lembo estremo del Paese: con esse lo Stato italiano moralmente e tacitamente ‘‘compensava’‘ la situazione in cui la provincia goriziana si era trovata al termine del conflitto, drasticamente ridotta di due terzi nella propria estensione territoriale e, soprattutto, privata del suo naturale retroterra. Si pensi, in tal senso, all’opportunità che la Zona Franca offriva agli insediamenti sul territorio e alle ricadute in positivo sulle tasche della popolazione grazie, ad esempio, alle disponibilità del Fondo Gorizia. (Sarebbe, però, anche da interrogarsi serenamente sulla portata di una presenza industriale o artigianale che non ha saputo e voluto radicarsi in quest’area e che in molti casi, cessato il vantaggio fiscale immediato, non ha esitato a delocalizzare altrove la propria produzione). Per non parlare, poi, della presenza del personale in divisa o dei funzionari pubblici. Di essa si sono spesso (e giustamente) sottolineati gli aspetti negativi – in tema, ad esempio, di servitù – dimenticando però l’apporto economico (ma anche e soprattutto umano!) dato da decine di migliaia di militari e impiegati (con le loro famiglie) a un territorio sino ad allora molto chiuso in se stesso. E dell’importanza di tale realtà, ce ne siamo, drammaticamente resi conto nel momento in cui caserme e uffici statali hanno chiuso uno dopo l’altro.
Venuto – ma non certo improvvisamente! – tutto ciò a mancare, non si è riusciti a dare concretezza alle ipotesi da tanti avanzate per rilanciare, con collaborazioni transfrontaliere capaci di attingere ai Programmi comunitari, la vitalità di un territorio che già allora presentava gravi situazioni di crisi. Qualcosa si è fatto – grazie soprattutto alla buona volontà dei singoli – ma è mancato quel salto di qualità definitivo, semplice da auspicare a parole ma ben più difficile da realizzare coi fatti.
Per assurdo, proprio l’adesione all’Unione europea (con i vantaggi economici immediati che questo ha comportato), ha visto la Slovenia in certo qual modo disinteressata, un decennio or sono, a privilegiare il dialogo con ciò che stava a Occidente del proprio territorio e quindi con l’Italia in generale e il Friuli Venezia Giulia in particolare, preferendo valorizzare l’asse settentrionale verso Austria e Germania. Da parte italiana, poi, si è guardato a lungo con sufficienza al nuovo compagno di strada europeo senza accorgersi che il Paese che eravamo stati abituati a vedere viaggiare in Zastava correva ormai in Mercedes e Suv.
Ci si è fermati, probabilmente, troppo a cercare interpretazioni condivise di un passato sempre più remoto: interpretazioni utili per i libri di storia ma che proprio la Storia, con la sua velocità nell’era della rete delle reti, ha reso obsolete e per le quali le nuove generazioni non dimostrano alcuna passione. Oggi, Italia e Slovenia sono accomunate da una crisi economica a cui non interessa sapere da quale parte della Cortina di ferro fosse posizionato un Paese nel secolo scorso.
In tale contesto, la realtà locale del Goriziano italiano e sloveno è obbligata finalmente a rendersi conto che solo proponendosi con convinta unitarietà può offrire un unicum a livello europeo.
Il punto di partenza non può che essere la Cultura: essa rappresenta il terreno più fertile su cui seminare un futuro anche economicamente appetibile. In tal senso, le iniziative in occasione dei 100 anni dall’inizio dell’’‘inutile strage’‘ debbono costituire un passo fondamentale per il decollo di collaborazioni future e durature. La sensazione, purtroppo, è che dopo questo treno, non ne passeranno altri. Perderlo diventa, quindi, impossibile.

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