La Passione di Nostro Signore Gesù rievocazione del 2009
La Passione di Nostro Signore Gesù rievocazione del 2009

Di Marco Testi

C’è ancora chi ha il coraggio di parlare di riti autopunitivi, di mortificazione della carne vista come figlia del demonio, di penitenze negatrici della bontà divina, di pessimismo radicale. La Settimana Santa e prima ancora il periodo quaresimale sono stati letti da alcuni come qualcosa di estremamente negativo, come una auto-fustigazione masochistica e ipocrita. Eppure Dante non è letto solo dai credenti, anzi; proprio lui ci offre una visione del cammino penitenziale non solo tra le più belle in assoluto, ma anche in grado di smentire le interpretazioni crudeli, masochistiche e pessimiste della purificazione cristiana. Essa è per il fiorentino sottile brezza prima del giorno, luce che inizia appena a distinguersi nelle tenebre della notte, intuizione che una forma profondissima di amore è presente anche nei più terrificanti abissi: “L’alba vinceva l’ora mattutina/ che fuggìa innanzi, sì che di lontano/ conobbi il tremolare de la marina:/ Noi andavam per lo solingo piano/ com’om che torna alla perduta strada,/ che ‘nfino ad essa li pare ire invano”.
In un Medioevo cui l’immaginario collettivo attribuisce penitenze corporali disumane, l’uomo medioevale per eccellenza – ma dotato di una ragione illuminata dalla fede – presenta, a chi la vuole cogliere, una concezione della purificazione abissalmente diversa, fatta di trepida attesa del passaggio della notte.
Uno dei grandi “allievi” di Dante, Eliot, non ha esitato – dimostrando notevole coraggio in una società intellettuale iper-scettica – addirittura a intitolare l’opera della sua conversione “Mercoledì delle Ceneri” (1930). Il sospetto di una poesia d’occasione, celebrativa, quasi da sacrestia, viene spazzato via dalla bellezza che i versi sprigionano. Ora se un’opera dichiaratamente penitenziale si presenta con il crisma della bellezza, ciò vuol dire che alcuni conti non tornano: dove stanno le fustigazioni, le catene, il disprezzo della carne, quando alcune figure femminili sembrano reggere il confronto con i quadri pre-raffaelliti o con l’immagine della Beatrice dantesca? Versi come “Signora dei silenzi/ quieta e affranta/ consunta e più integra/ rosa della memoria/ rosa della dimenticanza/ esausta e feconda/ tormentata che doni riposo” rappresentano una risposta di pura poesia a quanti sostengono che il cristianesimo vede nella donna solo pericolo, o sensualità e peccato. L’avvicinarsi dell’alba della resurrezione, ancora nella notte, è colto con un solo grido che dice tutto il dicibile: “Non sopportare che io sia separato”.
La disperazione non può staccarsi da una intuizione radicata nei sotterranei più riposti dello spirito umano: perfino il pessimista Manzoni, nell’ultima strofa della sua “Passione” sa che i segni di quella terribile sofferenza sono per l’uomo che crede profondamente e nonostante tutto “pegno d’eterno goder”; non è un caso che nella “Resurrezione” la speranza diviene anche terrena, rivolta al qui e all’adesso dei poveri: “Sia frugale del ricco il pasto;/ ogni mensa abbia i suoi doni;/ e il tesor negato al fasto/ di superbe imbandigioni,/ scorra amico all’umil tetto,/ faccia il desco poveretto/ più ridente oggi apparir”.
Anche uno dei poeti religiosi più interessanti del Novecento, Umberto Marvardi, in “Dal tramonto all’alba”, affronta la rovente questione della accettazione della sofferenza; a fronte della disperazione dell’uomo in crisi: “Dio, Dio mio perché m’hai abbandonato,/ perché il ruggito delle mie parole/ lontano è da colui che m’è salvezza?”, si snoda una vicenda che non ha parole, ma un senso, solo, semplicemente nel suo nudo scorrere: “E arrivarono al luogo detto Golgotha,/ ossia luogo del cranio, in ebraico,/ ove a bere gli dettero di un vino/ misto a fiele, che, assaggiato, lui non volle./ I soldati, appena crocifisso,/ divisero tra loro le sue vesti”. La sequenza degli eventi, senza intervento autoriale, è già una risposta. Non siamo soli. Qualcuno ha sofferto come noi, che è poi il messaggio terminale del capolavoro di Chesterton, “L’uomo che fu giovedì”.
Non solo fede nel Dopo, quella scaturita dalla resurrezione: Marvardi come Manzoni si ricorda dei miseri, i più vicini al Regno: “Sino a saziarsi mangeranno i poveri”, come d’altronde fa David Maria Turoldo nella sua “Poesia di Pasqua”: “E poi lascerò un fiore/ ad ogni finestra dei poveri”, anche perché le gioie, soprattutto la Gioia della nuova vita, come scrive il poeta servita, “sono tutte povere”.

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