PapaDi Vincenzo Rini

“Il sacerdote è una persona molto piccola”, relegato “tra i più piccoli degli uomini… è il più povero degli uomini… è il più inutile servo… il più stolto degli uomini… il più indifeso dei cristiani… Nessuno è più piccolo di un sacerdote…”. Ahimé, viene da dire. A chi potrebbe venire voglia di farsi prete, stando così le cose? Peggio di così non può essere. Se… non ci fossero quei “se”: “Se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà… Se Gesù non lo chiama amico… Se Gesù non lo istruisce pazientemente… Se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge”. Perciò: “Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze”. Ma proprio per questo ogni sacerdote può e deve dichiarare a se stesso: “Sono sacerdote perché Lui ha guardato con bontà la mia piccolezza” (cfr Lc 1,48). Ecco quindi l’invito: “A partire da tale piccolezza, accogliamo la nostra gioia. Gioia nella nostra piccolezza!”. Dalla miseria e piccolezza umana alla gioia di essere con Cristo, di sentirsi guardati da lui. La piccolezza del prete, guardata da Cristo, si trasforma in gioia.
È questo il messaggio di Papa Francesco ai sacerdoti nell’omelia della Messa Crismale del Giovedì Santo: il prete non può che essere gioioso, pur nella sua piccolezza umana. La gioia è il respiro di tutta la sua vita, anche nei momenti difficili, “in quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale” – a proposito dei quali Francesco annota: “Attraverso i quali anch’io sono passato” – con l’aggiunta “in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata”.
“Gioia” è la parola chiave di tutta l’omelia di Papa Francesco, che segnala lo “status” permanente dell’esistenza sacerdotale, indica l’aria che il prete respira, il primo messaggio che il pastore deve donare alle sue pecore. Non per nulla la parola “gioia” è ripetuta quasi come un ritornello nell’omelia. Leggendo il testo non mi sono potuto trattenere dal farci il conto: quarantanove volte la parola “gioia”, a cui si aggiunge per due volte il “gioire”. Una gioia che “unge“ il pastore perché egli possa “ungere” le sue pecore, una gioia incorruttibile, che nessuna difficoltà della vita può eliminare, una gioia missionaria, che nessun pastore potrebbe chiudere in se stesso, perché “bonum est diffusivum sui”, secondo l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino. Una gioia che ha tre sorelle: la povertà di chi si sente ricca solo di Cristo, la fedeltà a Dio e alla propria Chiesa, l’obbedienza nella Chiesa alla gerarchia, nella “unione con Dio Padre”.
Il prete che trasmette l’immagine della gioia diventa immagine di Cristo, aiuta i fedeli a intravedere, nel volto del pastore, il volto del grande Pastore di tutte le pecore, perché è questo che i fedeli desiderano: “Il tuo volto Signore io cerco: non nascondermi il tuo volto” (Salmo 26).
Ripensando alla mia ormai lunga vicenda sacerdotale alla luce dell’insegnamento di Papa Francesco in questo Giovedì Santo, mi torna alla mente un convegno diocesano, nel quale il relatore, ottimo davvero, era noto per la serietà e severità del suo volto, al punto da essere chiamato “L’uomo che non sorrise mai”. Il fotografo che fece il servizio fotografico, dietro la foto del relatore scrisse: “Sorgerà ancora il sole su questa terra?”.
Quant’è bello vedere preti gioiosi, splendenti della luce di Cristo buon pastore. Purtroppo, invece, si vedono, a volte, sacerdoti tristi, persino quasi minacciosi nel denunciare le fragilità umane dei loro fedeli. Mostrano il Cristo giudice di Michelangelo nella Cappella Sistina… Ma non fanno nascere in alcun giovane la voglia, il desiderio di farsi prete.
Non è questa l’immagine che ci è indicata da Papa Francesco.

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