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di Francesco Rossi

A quasi vent’anni dalla fine del conflitto, in Bosnia Erzegovina non è ancora arrivata una pace “giusta”. Il Paese soffre divisione ed emarginazione, mentre la sua popolazione continua ad andare all’estero, soprattutto i giovani. Non usa mezzi termini monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, nel descrivere la situazione. La guerra è terminata con “una pace invivibile, perché imposta per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con quelli degli abitanti della Bosnia Erzegovina”. L’accordo di Dayton, firmato alla fine del 1995 dopo oltre tre anni di conflitto, ha dato vita a uno Stato “artificiale”, nel quale alle “vecchie ingiustizie e diffidenze se ne sono aggiunte di nuove”, con la conseguenza che, “vent’anni dopo la guerra, la Bosnia Erzegovina risulta essere una società moribonda, dalla quale chi può fugge”. E l’Europa? Per ora resta solo a guardare secondo il vescovo, intervenuto ieri a Gorizia al convegno nazionale della Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), dedicato proprio a “Europa e confini”.
Ferite ancora sanguinanti. Da monsignor Sudar, nominato vescovo ausiliare di Sarajevo nel 1993, quando la città era assediata dall’esercito serbo, giunge un ritratto a tinte fosche. “Avvelenata dalle ingiustizie inflitte e patite, la gente del mio Paese non ha ancora il coraggio di levare lo sguardo, né la capacità d’intuire un futuro migliore”. “Il peso che ci schiaccia – precisa – sono le profonde ferite della guerra, che a causa di una pace ingiusta non trovano modo di guarire”. Il presule rimarca che “gli accordi di pace imposti dagli Usa a Dayton rendono il nostro Paese ingovernabile”, rilevando come la situazione sociopolitica sia “oggi ancora peggiore che nell’immediato dopoguerra”. Se l’immagine della Bosnia è quella di “un cuore un po’ malformato”, è però vero che essa è “il cuore dei Balcani: se smette di battere, sarà inviato al mondo il messaggio che non ci può essere un confine che unisce, ma solo che separa, riconoscendo come unica legge quella del più forte”.
Cambiare mentalità. Per “sradicare la guerra fratricida” che per tre volte, solo nel secolo scorso, ha colpito la Bosnia Erzegovina, occorre “un impegno serio e duraturo” per “cambiare mentalità”, “bisogna educare le nuove generazioni – ha ricordato Sudar – a vivere con un altro spirito. Per noi cristiani è lo spirito del Vangelo, la cultura del rispetto e della cura per il bene comune”. Imprescindibile, però, è “il reciproco riconoscimento” – a partire dalle differenti confessioni religiose – che si è “figli di un unico Dio”. “La Bosnia si sente tradita dall’Europa e dalle potenze occidentali, che l’hanno messa in un limbo che non le appartiene e non le permette di avere un’identità”, rimarca Mauro Ungaro, direttore del settimanale diocesano di Gorizia, “Voce Isontina”, promotore del convegno in occasione dei 50 anni di vita della testata. “Sarajevo, dimenticata durante la guerra, quando era stretta d’assedio e nessuno sembrava accorgersene, è dimenticata anche dopo – osserva Ungaro – perché nessuno vuole risolvere la situazione. L’Europa dovrebbe accorgersi della Bosnia, però ha paura”.
L’Europa abbia più coraggio. Già, l’Europa. “Bisognerebbe riorganizzare politicamente il nostro Paese, avere il coraggio di riconoscere – chiede Sudar – che la divisione fatta a Dayton, che ha spaccato il Paese in due parti, non ha portato alcun progresso. È ora di cancellare questa linea che divide il Paese, dare la possibilità alla gente che è stata cacciata via di tornare nelle proprie case, di avere un lavoro”. E, a prendere le redini, dovrebbe essere proprio quell’Unione Europea che ha precluso alla Bosnia Erzegovina la possibilità di presentare domanda di adesione finché permane l’ufficio di alta rappresentanza creato con gli accordi di Dayton, che però non può chiudere fino a quando la situazione non si è stabilizzata. All’Ue il vescovo chiede di “avere più coraggio nel proporre soluzioni possibili e vivibili”, accantonando quella che “negli ultimi vent’anni si è dimostrata una soluzione sbagliata”. Gli americani, con Dayton, hanno fatto tacere le armi, ma non hanno costruito la pace. Ora tocca all’Europa.

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