Di Benedetta Riga

In Gran Bretagna, sono stati annunciati sgravi fiscali fino al 30% per gli operatori che investono nel sociale e si stima che la decisione libererà, nei prossimi cinque anni, mezzo miliardo di sterline, di cui beneficeranno le organizzazioni del Terzo Settore. Parliamo di un Paese dove gli investimenti nel sociale sono fortemente favoriti da oltre vent’anni ed hanno contribuito alla crescita di migliaia di nuove aziende medio-piccole. Quest’esperienza può costituire un esempio da perseguire anche per l’Italia e l’annuncio del presidente del Consiglio di avviare dal primo giugno la possibilità di accedere ad un Fondo di 500 milioni di euro a disposizione delle imprese sociali, può aprire un solco caratterizzato da grandi opportunità.

Nuove misure legislative.
 Il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, già presidente delle Acli – nel corso di un convegno della scorsa settimana, organizzato dal settimanale Vita e dall’Istituto Cergas dell’Università Bocconi, ha annunciato il varo di un disegno di legge che superi l’attuale normativa (legge 155/2006), per favorire gli investimenti – ha dichiarato: “Abbiamo poco più di due mesi di tempo per trasformare una slide in una politica, un disegno organico”.

I numeri attuali. Questa prospettiva s’innesta, da un lato, in uno scenario europeo nel quale l’economia sociale vale il 10% del Pil e conta 11 milioni di lavoratori, dall’altro in una situazione italiana che ha sì favorito lo sviluppo delle cooperative sociali – circa 13mila, con 400mila occupati, 7 milioni di famiglie interessate con l’offerta di servizi di welfare e 7 miliardi di fatturato, cresciute negli ultimi 10 anni del 53%, con un’occupazione aumentata del 17% dal 2003 al 2011, in ulteriore crescita nell’ultimo anno per il 30% del numero complessivo – ma non quello delle imprese sociali vere e proprie: sono appena 600 quelle registrate alle Camere di Commercio. Se si aggiungessero anche le imprese “for profit”, che già operano nelle attività previste dalla legge 155, ma non si sono registrate come tali – sono circa 85.000 – il numero di imprese sociali raggiungerebbe le 120mila unità.

Un ruolo centrale.
 L’iniziativa legislativa che si profila in Italia – che risponde anche alle decisioni europee, in particolare al Social Business Initiative, il piano d’azione varato dall’Ue nel 2011 per lo sviluppo, l’occupazione e la crescita delle imprese sociali – dovrebbe coinvolgere sia le imprese “no profit” sia quelle “for profit”: riguarderebbe le cooperative e le imprese sociali, ma anche il commercio equo e solidale, le iniziative di housing sociale, il microcredito, le iniziative di reinserimento lavorativo. Molti gli aspetti innovativi: l’obbligatorietà dell’assunzione dello status di impresa sociale per chi ne detiene le caratteristiche; la possibilità di remunerare, in misura limitata e non speculativa, il capitale, per attirare nuovi investimenti; la previsione di poter accedere al regime fiscale delle Onlus e a quello dei vantaggi previsti alle “start up” innovative; la possibilità che una quota del patrimonio trasferito dallo Stato a comuni, province, città metropolitane, e regioni, sia destinato allo sviluppo delle imprese sociali. C’è chi ha definito queste misure di carattere rivoluzionario. Certamente, se attuate, configurerebbero novità importanti e, in qualche modo, certificherebbero una realtà – quella dell’impresa di carattere sociale – che, con i suoi numeri e con le sue prospettive, può concorrere a rivestire un ruolo di primo piano nell’economia complessiva del Paese.

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