A questo punto tutti dovrebbero aver capito che sulla disoccupazione non si può più scherzare: con i dati diffusi oggi dall’Istat scopriamo di essere tornati ai livelli record del 1977, dopo la grande crisi del petrolio. In termini assoluti, nel nostro Paese risultano ufficialmente disoccupate 3,3 milioni di persone (13%), cioè l’equivalente di una città come Roma o, se preferite, come la conurbazione di Milano e città satelliti. Gli occupati sono 22,2 milioni, cioè un italiano su tre. Escludendo i bambini e gli anziani, in realtà emerge che sui 40 milioni di cittadini in età lavorativa (15-64 anni), lavora poco più di una persona su due. Il paragone con altri Paesi sarebbe impietoso: basta fare riferimento a qualcuno dei Paesi del nord Europa, dove è molto diffuso il part-time; dove il 70/80 per cento delle donne ha un impiego, a tempo pieno o meno; dove non ci sono lacci e lacciuoli per le assunzioni e i licenziamenti. Da noi, tutt’altra musica: donne fuori, giovani fuori, contratti a lungo termine zero o quasi, un quadro desolante. Con metà degli italiani esclusi dal lavoro, non solo si perdono redditi, profitto, ma soprattutto si rinuncia alla creatività, inventiva, forza sociale di tantissime persone che vorrebbero fare la propria parte.
Coloro che non lavorano sono vittime di una società bloccata, che insegue i fantasmi di uno schema sociale “garantista”, piegato e messo inesorabilmente in crisi sia dalla crisi finanziaria globale, sia dall’aggressività dei Paesi emergenti che ci invadono con le loro merci e con le loro braccia che emigrano verso l’eldorado (!) europeo. Dentro tutto questo, il dato ancor più doloroso è rappresentato dai giovani italiani: l’Istat dichiara senza mezzi termini che ben il 42,3% sono disoccupati, cioè quasi un giovane su due annaspa in una società che non offre se non stage a basso reddito (quando va bene 500-800 euro al mese), pochi contratti a termine e praticamente zero contratti a tempo indeterminato.
Dove pensa di andare un Paese messo in questa condizione? Da nessuna parte, perché i giovani fanno le valigie ed emigrano in Germania o Gran Bretagna, con tanto di laurea e master, per fare i cuochi o le ragazze alla pari. E chi rimane soffre, tiene duro, è costretto a fare il “bamboccione” assistito da genitori o nonni, perché non ci sono alternative. Quindi ben venga quella che sembra l’ultima ancora cui aggrapparsi, il “Jobs Act” di Renzi, da varare senza ripensamenti, con i suoi contratti a tre anni rinnovabili, purché ai giovani si spalanchino opportunità di cimentarsi per periodi sufficientemente lunghi, con un lavoro che altrimenti rimarrebbe un “miraggio”. Il colmo è che un tempo si pensava al lavoro come “fatica”, oggi lo si brama come liberazione! Ma in che mondo viviamo?

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