Di Marco Doldi
Che la Via Crucis non sia solo una pratica devozionale è apparso particolarmente evidente nell’iniziativa promossa a Roma dalla Comunità Giovanni XXIII, dal nome “Mai più Crocifisse”. Diverse migliaia di persone hanno pregato per tutte quelle donne vittime della tratta e della prostituzione; lo hanno fatto non con distacco – come se si trattasse di situazioni lontane – ma camminando insieme a molte di loro.
La Quaresima è il tempo liturgico particolarmente adatto per ricordare che ancora oggi Cristo soffre nelle sue membra più deboli. Come si potrebbe pensare di poter contemplare un giorno il Corpo glorioso del Risorto, se oggi non ci si china sulla sua carne sofferente? Se ci si guarda un poco intorno si vede facilmente chi siano oggi i crocifissi insieme a Cristo. Lo ha indicato Papa Francesco, rivolgendosi il 24 marzo agli operatori sanitari: “Nel quotidiano svolgimento del nostro servizio teniamo sempre presente la carne di Cristo presente nei poveri, nei sofferenti, nei bambini, anche indesiderati, nelle persone con handicap fisici o psichici, negli anziani”.
Vivere la Quaresima – specialmente la Settimana Santa – significa uscire da se stessi per guardare e andare verso le periferie dell’esistenza e portare loro la presenza viva e consolante di Gesù misericordioso. Significa entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è solo quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. Dio, per così dire, ha guardato l’esistenza umana con amore ed è uscito da se stesso per raggiungere chi soffre e portare la sua presenza. Anzi, divenendo uomo, si è unito per sempre all’umanità sofferente, al punto da identificarsi con gli ultimi. Il primo passo è dunque quello di guardare e riconoscere dove Cristo è presente, là nelle membra più sofferenti. Guardare l’altro che soffre significa, così, assumere in qualche modo la sua sofferenza: essa diventa la mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina “con-solatio”, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Una umanità che non riuscisse ad accettare i sofferenti e non fosse capace di contribuire mediante la “com-passione” a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente sarebbe una società crudele e disumana
Ma non basta. Occorre anche impegnarsi per cambiare; il cristianesimo non ha mai fatto del dolore e della sofferenza la condizione ideale dell’esistenza. Ha sempre insegnato che queste devono essere soccorse e lenite. La Chiesa, ad esempio, ha creato strutture e istituzioni per i malati, per i sofferenti, per gli incurabili quando nella società non esisteva nulla per loro. In questo senso guardare ai crocifissi significa creare luoghi dove possano essere accolti, curati, amati. La fantasia cristiana, il cui artefice è lo Spirito Santo, continua a creare spazi di condivisione, di solidarietà e di carità. E poi? Ci si deve adoperare per rimuovere le cause di queste sofferenze. La malattia chiama in causa la ricerca medica, le ingiustizie e gli sfruttamenti richiamano autentiche strutture di male, che hanno sempre responsabilità individuali. La fede cristiana non celebra la sofferenza fine a se stessa; piuttosto conduce a combattere quelle strutture che causano la sofferenza di tanti esseri umani. Si deve fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza, agendo su ciò che la causa.

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