“La cultura dello studio, del sacrificio e l’importanza di questa dimensione per il riscatto individuale e collettivo si è un po’ persa nella nostra società, e anche nelle famiglie”. Lo ha affermato il neo ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, intervenendo a una trasmissione su Radio1 e facendo un’affermazione ad effetto per spiegare meglio il concetto: “Mantenere i figli all’università – ha spiegato il ministro – costa quanto una piccola utilitaria. Eppure sono certa che oggi molte famiglie comprerebbero una macchina nuova invece di assicurare un futuro ai propri figli attraverso l’istruzione”.
Molte famiglie, probabilmente sì. Ma non tutte, se si considera l’esempio di quanti, anche nel percorso della scuola dell’obbligo, affrontano sacrifici non da poco per assicurare ai figli un’istruzione/educazione in linea con aspettative e scelte familiari, come succede ad esempio in numerosi casi di scelta (onerosa) delle scuola non statale. Quindi, non si può probabilmente generalizzare troppo, tuttavia Giannini tocca un punto dolente della nostra società che è concentrata su valori legati all’immediato, cerca soddisfazioni subito e spesso facili invece che considerare con la dovuta attenzione i percorsi anche faticosi e lunghi, di costruzione personale e collettiva. E infatti, sempre il ministro, alla radio, ha sottolineato la necessità di recuperare tutti “il valore dello studio, dell’attenzione e della concentrazione su quello che si impara per migliorare nella vita”, ha ribadito l’importanza di costruire nuove basi culturali.
È, questo, un nodo decisivo della nostra società, perché riguarda non solo l’oggi – cosa pensiamo e come viviamo – ma soprattutto il domani. Non solo nel senso che stiamo costruendo con i pensieri e i modi di vivere di oggi la società del futuro, ma anche perché a seconda di come la costruiamo, le apriamo o precludiamo strade e scelte, sviluppiamo o meno la stessa possibilità di cogliere alcune sensibilità e non altre. Un ulteriore esempio in questa direzione viene sempre dalle parole del ministro, che ha definito l’insegnamento come il “mestiere più bello del mondo”. Ma oggi in pochi la pensano così, se è vero che alla domanda “le piacerebbe che suo figlio diventasse insegnante?” solo un italiano su 5 risponderebbe sì. Risposta che solo qualche decina di anni fa sarebbe stata ben più condivisa: la sensibilità diffusa, infatti, vedeva l’insegnante come una persona importante, che svolgeva un lavoro decisivo per tutti, al quale affidare con fiducia i figli. Piano piano, per molte ragioni, l’immaginario collettivo si è modificato: oggi del mestiere dell’insegnante si rileva anzitutto che è mal pagato (e dunque non vale la pena), senza considerare poi che sempre più entra in conflitto – rappresentando in qualche modo la dimensione della collettività – con la cultura dell’individualismo e della privacy. La sensibilità, prima ancora del giudizio sulla professione, è cambiata.
Insomma, ci sarebbe da riflettere a lungo, ma il nodo sta proprio nella promozione di cultura, che è sapere e saper essere, conoscenze e valori, sguardo di prospettiva. E ancora una volta la scuola è decisiva. Tornare a scommettere sulla scuola e gli insegnanti vale la pena. Ultimamente lo si sente dire più spesso. Certo servono anche azioni concrete (risorse, politiche, esempi).

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