Don RoccoDi Francesco Rossi
Non basta fare la carità: questa va organizzata, ed è compito degli economi delle diocesi, chiamati a operare come amministratori fedeli e prudenti. Centri d’ascolto e di accoglienza, mense, esperienze di housing sociale, microcredito e contrasto all’usura: molteplici e differenziate sono le opere caritative messe in campo dalle Chiese locali, grazie alle offerte dei fedeli e ai fondi derivanti dall’8 per mille dell’Irpef per la Chiesa cattolica. La crisi morde, ma anche in questo frangente non è venuta meno la solidarietà. Dopo il convegno degli economi diocesani, tenutosi la settimana scorsa a Salerno su “Il servizio della carità: responsabilità e organizzazione nelle Chiese particolari alla luce del motu proprio ‘Intima ecclesiae natura’”, il Sir ne parla con l’economo della Cei, don Rocco Pennacchio.
Come rispondono le diocesi a un’esigenza caritativa che si fa sempre più sentire?
“La Chiesa per secoli ha svolto un’attività caritativa contando esclusivamente su fondi provenienti dalla valorizzazione del proprio patrimonio e dalla carità dei fedeli. Dal 1990 vi sono anche le risorse derivanti dall’8 per mille. Queste sono importanti, specialmente in un periodo in cui la crisi attanaglia sempre più le famiglie, facendo emergere nuove povertà. Ma la carità, nella Chiesa, non è mai venuta meno”.
Al convegno lei ha fatto cenno a risorse dell’8 per mille che hanno “valenza di stimolo, di start up…”.
“Quando una diocesi intende realizzare un’iniziativa nuova – che sia una mensa, un centro di accoglienza, un dormitorio ecc. – non deve contare solo sull’8 per mille, ma interrogarsi sulla sostenibilità del progetto nel tempo e sulla possibilità di avviare l’opera anche con altre risorse. L’8 per mille è una risorsa aggiuntiva, che deve servire da stimolo, ma sempre in presenza di altri soggetti disposti a impegnarsi”.
La crisi ha intaccato la disponibilità economica delle persone: ne risentono le offerte alla Chiesa?
“Le collette nazionali degli ultimi anni hanno registrato un andamento discendente: in particolare la Giornata missionaria mondiale – che storicamente è quella con maggiore consenso – quest’anno avrà una riduzione particolarmente significativa. E pure le offerte deducibili per il sostentamento del clero sono in calo”.
Non c’è il rischio che, tra collette nazionali “ordinarie”, altre per eventuali emergenze, esigenze delle diocesi e delle singole comunità parrocchiali si frammenti la carità?
“Le collette ‘obbligatorie’ indicate dalla Chiesa italiana non sono molte. Poi è vero che le parrocchie sono bersagliate da tante richieste, anche da parte di realtà del territorio. Ma ritengo che si debba far crescere l’ecclesialità tra la nostra gente, far capire che le esigenze a livello mondiale o nazionale non sono meno importanti di ciò che si fa sul territorio. Certo, da parte della Chiesa ci vuole sempre maggiore trasparenza per documentare come vengono finalizzate queste collette”.
Pensa che vi sia diffidenza da parte dei fedeli nel donare?
“Non mi sembra che la Chiesa stia vivendo una crisi di credibilità o reputazione, anche per merito della bella testimonianza che ci sta dando Papa Francesco. Per quanto riguarda le firme dell’8 per mille, è vero che sono diminuite, ma si tratta di un calo poco sensibile: ancora oggi l’82% dei cittadini sceglie la Chiesa cattolica”.
C’è chi attribuisce questo calo a semplificazioni del sistema fiscale, ad esempio per quanto riguarda i contribuenti esentati dalla presentazione della dichiarazione…
“L’Ufficio Cei per la promozione del sostegno economico alla Chiesa monitora queste semplificazioni e ci sono iniziative promosse a livello locale per favorire la raccolta delle firme, nel rispetto della sensibilità di ciascuno. Bisogna venire incontro a chi vorrebbe firmare, ma è nell’impossibilità di farlo, magari perché occorrono competenze di tipo informatico: l’Inps, ad esempio, ora manda il Cud in formato elettronico…”.
Il motu proprio cui fa riferimento il convegno chiede di mantenere chiara la propria identità, evitando finanziamenti “da enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa”. Un richiamo valido anche per le nostre realtà ecclesiali?
“Sì: ci sono due possibili rischi. Il primo è che una massiccia affluenza di contributi pubblici svilisca l’identità religiosa dell’opera, facendo perdere il controllo all’ente ecclesiastico che l’ha promossa. Il secondo è che vi siano enti, originariamente collegati alla Chiesa, che nel tempo hanno perso quella sensibilità cristiana che li aveva ispirati. Ci vuole molta attenzione e, se non è tutelata l’identità religiosa dell’opera, meglio lasciar perdere piuttosto che creare occasioni di scandalo”.

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