Pagare l’affitto, la rata del mutuo oppure le bollette di casa; riscaldare l’alloggio in maniera adeguata, senza che freddo e umidità penetrino nelle ossa; affrontare qualche spesa inattesa, una carie ai denti, un vestito liso che si strappa… E poi poter mangiare carne o proteine, almeno con una certa regolarità; comprare la tv quando la vecchia non funziona più; disporre della lavatrice; potersi permettere almeno qualche volta una breve vacanza. Acquistare un telefonino, anche se non è l’ultimo prodotto uscito sul mercato. Addirittura comprare un’auto, magari di seconda mano… Sono nove esigenze di una famiglia più o meno “media” nell’Europa di oggi: sulla base di questi criteri di riferimento, Eurostat, l’istituto statistico comunitario, calcola il “tasso di deprivazione materiale” di un certo Paese Ue, oppure di una regione.
Se di queste nove esigenze un cittadino single o una famiglia non riescono a soddisfarne almeno quattro, eccoli rientrare nelle statistiche degli “indigenti”, soggetti a rischio di povertà o – senza giri di parole – poveri. Sulla base del tasso di deprivazione vengono quindi distribuiti i fondi Ue per gli aiuti alimentari e i generi di prima necessità tramite una speciale voce del budget comunitario, il quale conta su una dotazione di 500 milioni di euro l’anno per i prossimi sette anni.
Il via libera al fondo è arrivato nei giorni scorsi dall’Europarlamento. Ora che i soldi ci sono, possono partire i pacchi di pasta e di riso, le bottiglie di olio o le scatole di fagioli per chi non arriva alla fine del mese, o le scatole di quaderni e pennarelli per gli studenti i cui genitori hanno perso il lavoro, oppure semplicemente hanno stipendi da fame. Certo – si dirà – è una goccia nel mare dei bisogni dei cittadini europei. Però è un segnale di attenzione, accompagnato da una concreta mano tesa.
Una curiosità. Se si butta l’occhio alla colorata carta geografica europea disegnata da Eurostat sulla base del tasso di deprivazione, si scopre che nord e centro Europa hanno una percentuale di persone indigenti o a rischio povertà al di sotto del 5% della popolazione totale (è il caso, ad esempio, di Finlandia, Svezia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Austria). Se si cercano le nazioni che hanno una percentuale compresa tra il 5 e il 10% allora occorre andare verso ovest, dove si incontrano Francia, Belgio, Regno Unito, e perfino Spagna, Portogallo, con l’aggiunta, a est, di Repubblica ceca e Slovenia. A sud e a oriente ecco i colori più intensi, corrispondenti ai Paesi più bisognosi, con percentuali crescenti di “povertà relativa” – anche in ragione del costo della vita – che vanno dalla Polonia (13,5%) all’Italia (14,5%), dalla Grecia alla Slovacchia, dalla Croazia alle repubbliche baltiche, fino ai casi limite di Ungheria, Romania e Bulgaria (44,1%).
Ancora una volta si ha la riprova che l’Europa marcia a diverse velocità: il nord sta meglio del Mediterraneo, l’ovest se la cava più dell’est. È vero che le statistiche non fotografano con esattezza la realtà e che se io mangio due polli e tu ne mangi zero, la statistica parla di un pollo a testa. Ma ci sono oggi, nel 2014, proprio nella “sviluppata” Europa, persone che i polli non li vedono neppure col binocolo.

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