venezuelaDi Paolo Bustaffa

Eccoli i giovani nelle piazze di Ucraina, Serbia e Venezuela.
In quante altre piazze del mondo li abbiamo visti in questi anni a rischiare la loro vita?
Eccoli con la loro voglia di cambiare, con la loro indignazione, con i loro sogni che mai sono l’immagine della fuga dalla realtà ma sempre sono l’immagine della voglia di un mondo migliore.
Eccoli a morire per un ideale, per una società diversa da quella in cui vivono, una società di volti e non di percentuali, di relazioni e non di contratti.
Eccoli a cercare alleanze con quel mondo adulto che non li ha traditi chiudendoli nella gabbia dorata del perbenismo e del moderatismo ed è sceso con loro nelle strade e nelle piazze a sfidare un potere malato, corrotto e oppressivo .
Un dialogo intergenerazionale che non si definisce tanto con le parole degli esperti quanto con la concretezza delle scelte di democrazia, di giustizia, di trasparenza, di progresso sociale, culturale e spirituale.
C’è però una domanda che queste nuove generazioni pongono al mondo adulto che regge le sorti di molti Paesi: perché ancora occorre scendere in piazza e arrivare allo scontro fisico per avere dignità, libertà e giustizia?
Non sono bastate e non bastano tante morti, tante distruzioni, tante ferite ?
La storia dovrà continuare ad essere scritta anche con il sangue di ragazzi e ragazze “ribelli per amore” di un mondo diverso da quello costruito dai “grandi”?
È un esame di coscienza quello che viene chiesto dai giovani ma ancor più profondamente è la domanda se la coscienza esiste quando il potere usa la violenza e la repressione , materiali e immateriali, per governare.
Forse la coscienza rimasta sono questi giovani scesi in piazza e gli adulti che sono al loro fianco.
E subito altre domande, più graffianti, vengono rivolte ai coetanei che , grazie a nuovi e antichi media, seguono quanto accade sulle piazze di Ucraina, Venezuela, Serbia: potete rimanere indifferenti davanti a questo soffrire e a questo morire? Basta augurare che tutto finisca presto oppure, là dove siete, dovete anche voi avvertire la responsabilità di costruire un futuro migliore? Lascerete soli i vostri coetanei nella lotta per la verità , la bellezza e il bene, una lotta che riguarda tutti?
Domande che dovrebbero inquietare. Domande che dovrebbero scuotere il pensiero. Domande che dovrebbero provocare un impegno perché la realizzazione di se stessi avvenga insieme con la realizzazione degli altri e non a loro scapito come purtroppo accade in una società conformista e benpensante.
La rivoluzione, soprattutto in un tempo di crisi, è nell’aprirsi agli altri, alle loro attese e non certo a guardare solo a se stessi. La rivoluzione – anche Papa Francesco non smette di ripeterlo – è nel camminare sulle strade del mondo come moderni samaritani, è comunicare la gioia del Vangelo che non è un allegro ritornello al buio ma è condividere nella speranza le fatiche e le angosce dell’umanità, a cominciare da quella più vicina.
Una rivoluzione che certamente è senza violenza, ma essere pacifici non significa essere silenziosi e insignificanti sul piano sociale e politico.
Dai giovani che lottano e muoiono per la libertà sulle piazze del mondo viene dunque un appello all’impegno pubblico per molti altri coetanei che probabilmente senza rendersene conto sono prigionieri di un perbenismo e di un moderatismo che qualcuno ha teorizzato come una strada verso la felicità mentre è una strada verso l’egoismo e, di conseguenza, verso l’infelicità.

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