catalognaDi Gianni Borsa

Ci sono pulsioni centrifughe e forze centripete che si confrontano in Europa: ciascuna opera secondo ragioni e interessi comprensibili, ma in mezzo c’è un continente – e una Unione europea – che fatica a trovare il suo sentiero nel nuovo millennio globale. Così, tra crescenti nazionalismi e imminenti referendum secessionisti, il 2014 potrebbe segnare un anno di svolta. Senza conoscere, a priori, la futura direzione di marcia.
Il segnale più recente è venuto dalla Catalogna. Il presidente della regione spagnola, Artur Mas, ha preso carta e penna e ha scritto ai principali leader europei, compresi Angela Merkel, François Hollande e José Manuel Barroso, invitandoli a sostenere il diritto dei catalani all’autodeterminazione, che passerebbe dal referendum per l’indipendenza fissato il prossimo 9 novembre. Il governo di Madrid ha già peraltro respinto tale ipotesi: il premier Mariano Rajoy sostiene, non senza ragioni, che la secessione di una parte del Paese interessa tutti gli spagnoli, e dunque alle urne dovrebbero eventualmente andare tutti i cittadini, non solo quelli della Catalogna.
Comunque Mas, che guida un governo regionale politicamente piuttosto debole, insiste sulla sua linea. Ai capi di Stato e di governo Ue ha fra l’altro scritto: “Confido nel fatto di poter contare su di voi per promuovere il processo pacifico, democratico, trasparente ed europeo nel quale io e la stragrande maggioranza del popolo catalano siamo totalmente impegnati”. In effetti è sufficiente fare un giro per le strade di Barcellona e delle altre città e villaggi della regione per vedere un tripudio di bandiere catalane, ed è ancora vivo il ricordo delle recenti marce popolari e delle catene umane che nei mesi scorsi hanno riaffermato la voglia di allontanarsi dalla Spagna. Le ragioni sono molteplici, ma soprattutto prevale un sentimento: la Catalogna da sola sarebbe un – più o meno – ricco Stato europeo di medie dimensioni, con oltre 7 milioni di abitanti e un debito pubblico e un tasso di disoccupazione ben diversi, benché non certo ideali, rispetto al resto del Paese.
Dalle altre capitali per il momento tutto tace: le divisioni nazionali fanno paura e nessun leader di grande Stato europeo ha appoggiato sinora la richiesta di Mas. Dalla Commissione europea, invece, ancora l’8 gennaio è stata ribadita una posizione già nota: se si dovesse formare un nuovo Stato in Europa per secessione da un membro Ue, il “neonato” sarebbe fuori dall’Unione. I cittadini catalani di fatto non godrebbero più della cittadinanza comunitaria e dei relativi diritti (ad esempio la libertà di movimento entro le frontiere Ue); si aprirebbe un contenzioso sui fondi provenienti dal bilancio europeo di cui usufruisce anche Barcellona; la circolazione dell’euro sarebbe in discussione nell’economia catalana. La “nuova Catalogna” potrebbero però avanzare domanda di adesione all’Ue, da sottoporsi a voto unanime in Consiglio europeo… dove siede però anche il governo di Madrid.
La questione catalana induce però a qualche riflessione ulteriore che trascende i confini iberici. Infatti a settembre di quest’anno si svolgerà in Scozia proprio un referendum per dire sì o no alla divisione dal resto del Regno Unito. In tal caso il tragitto verso il voto popolare è avvenuto in accordo fra Edimburgo e Londra e i toni della contesa sono sempre rimasti accettabili: eppure le ferite aperte fra tendenze nazionaliste, regionaliste ed europeiste pure qui sono di tutta evidenza. E non si può trascurare il fatto che dinamiche simili sono ben diffuse nel continente, talvolta sopite, altre volte più esplicite e virulente: si pensi a quanto insegna la storia a proposito dell’Irlanda o dei Paesi Baschi, disseminati di conflitti decennali e di morti ammazzati; oppure alle rivendicazioni della Corsica, al braccio di ferro tra Kosovo e Serbia, alla divisione in due dell’isola di Cipro. Fautori della sovranità territoriale e del distacco dalla nazione-madre si trovano in Belgio (dove si fronteggiano fiamminghi e valloni), nel Galles, nella ricca Baviera tedesca, in Alto Adige e in Lombardia se ci si volta verso l’Italia. Per non parlare delle rivendicazioni dei russofoni di Lettonia, degli ungheresi di Romania, della lontananza spesso ribadita da Groenlandia e Isole Far Oer dalla Danimarca da cui dipendono, del caso della Transnistria rispetto alla Repubblica di Moldova. E si potrebbe proseguire di questo passo.
Al di là delle singole rivendicazioni, e dei relativi processi politici in atto, è di tutta evidenza che il problema è ben più vasto. La mondializzazione dei processi economici, demografici, culturali, acceleratasi negli ultimi vent’anni, ha spiazzato tutti; ad essa si è aggiunta una prepotente crisi economica che ha investito con inaudita violenza proprio l’Europa e i suoi cittadini, diffondendo un profondo senso di insicurezza sociale e materiale. Non vanno neppure trascurati gli arrembanti flussi migratori verso le spiagge e i valichi europei provenienti dagli instabili e spesso poveri Paesi africani, mediorientali, est-europei, centroasiatici e sudamericani, che oggettivamente gravano sulle stesse società e sui mercati del lavoro europei, portando fra l’altro con sé una pluralità di lingue, culture e religioni. A questo trend ampia parte della popolazione europea vorrebbe rispondere con nuovi muri, nuove frontiere, nuovi particolarismi. Ma sembra impossibile riscontrare in tali posizioni risposte credibili, efficaci, pacifiche e di lungo periodo. Le vecchie soluzioni non sembrano spalancare scenari rassicuranti; le nuove strade sono tuttora da individuare.

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