fiatDi Marco Banotti
Detto, fatto. Sergio Marchionne aveva in programma la fusione di Fiat con Chrysler fin dal 2009, quando rilevò l’azienda di Detroit dal fallimento pilotato cui era destinata. Intorno all’acquisizione di Chrysler, Marchionne ha via via connesso tutti gli altri tasselli della sua strategia per costruire un gruppo realmente globale, così come si appendono le palline colorate sull’albero di Natale: l’articolazione delle attività tra automobile e altri veicoli industriali; la presenza di stabilimenti in tutti i continenti; la possibilità di giocare le proprie carte finanziarie sia con le regole americane che con quelle europee.
Punto fondamentale, quest’ultimo, per quanto riguarda il mercato del credito, perché consente a Marchionne di articolare con grande agilità domanda e offerta di liquidità a livello realmente planetario, sfruttando tutte le variazioni dei mercati e le eventuali opportunità offerte dalle politiche dei governi nazionali o federali. Si è detto, ed è vero, che Marchionne ha fatto con Obama quel che non avrebbe mai potuto fare con il primo ministro italiano o con il presidente della Commissione europea – proprio a causa della diversità delle condizioni normative in cui opera l’industria nei diversi Paesi. Con Obama la Fiat ha potuto “fare politica” in termini e modi ormai impossibili in Europa.
Anche per tutti questi motivi, però, Fiat non sarà più Fiat. L’acquisizione di Chrysler implica anche, coerentemente, la costituzione di una nuova “proprietà” del gruppo industriale. Il prossimo consiglio d’amministrazione del 30 gennaio dovrebbe approvarne le caratteristiche e le linee guida. Per adesso basti constatare che agli attuali proprietari di Fiat (la famiglia Agnelli in specifico) l’operazione Detroit è costata solo 1,750 miliardi di dollari, contro i 4,3 miliardi che andranno invece al sindacato Veba per la vendita della quota (la differenza viene realizzata con un dividendo straordinario di Chrysler interamente versato a Veba e con altri incentivi).
Dunque un successo, che le Borse dovrebbero premiare adeguatamente a partire già da oggi. Indubbiamente gli aspetti positivi sono rilevanti: con questa operazione il gruppo italiano torna tra i pochi “global player” di un mercato, quello automobilistico, che è maturo ma certo non finito e in cui le concentrazioni finanziarie e produttive sono non un’opzione ma una necessità. E però proprio questa logica ha comportato e comporta l’obbligo di lasciar cadere i “rami secchi” o di riciclare le risorse disponibili mettendole a servizio di una prospettiva globale. La domanda, un po’ romantica, se a Torino si costruiranno ancora automobili ha già trovato risposte magari non ancora dichiarate e però precise: la linea che verrà prossimamente installata a Mirafiori servirà a produrre Suv, grandi cilindrate destinate a fasce alte di mercato. Bisogna abbandonare l’idea che sia ancora possibile costruire qui le utilitarie per il ceto medio, quelle che fecero, negli anni ‘60, la ricchezza dell’Italia. Per altro proprio Marchionne sa bene, e l’ha dichiarato più volte, che la crisi del mercato dell’auto è direttamente in relazione con la crisi mondiale del ceto medio – di quelli cioè che erano in condizione di mettere da parte i soldi per comprare e poi cambiare l’auto di famiglia…
La diversità – o l’anomalia, se si vuole – della nuova Fiat sta proprio qui: per diventare un gruppo globale il Lingotto ha rinunciato, già da anni, ad avere precise radici in Italia. ha costruito stabilimenti in Polonia e in Serbia invece di rilanciare Mirafiori, muovendosi con una logica più da scarparo del Nord Est che da grande industria. E questo a differenza di quanto accade nei Paesi cui naturalmente l’Italia fa riferimento: la Francia e la Germania, dove gli stabilimenti automobilistici hanno affrontato la crisi e la ristrutturazione in altro modo.
Rimane, Torino. La città e il suo territorio stanno pagando duramente il progressivo abbandono dell’auto – cominciato non nel 2003, ma nel 1980. Torino è stata progressivamente svuotata, in periferia e fin quasi in centro, dalle localizzazioni industriali, quelle direttamente di Fiat e le altre dei molteplici indotti che qui avevano avuto radici per quasi cento anni. Si potrebbe agevolmente compiere un “tour” di archeologia industriale nei grandi spazi lasciati vuoti dalle fabbriche e riempiti precariamente dagli ipermercati o da quell’edilizia residenziale della “bolla” tenuta in piedi fino al 2008. Ora bisognerebbe riuscire a non perdere altro, né Mirafiori né quel che rimane della “direzione strategica” del Lingotto. Un’impresa non impossibile, se i poteri locali riusciranno davvero a “fare squadra”, proponendo a Elkann e Marchionne condizioni interessanti per non emigrare – o, peggio, per non trasferirsi a Milano…

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