guerraDi Michele Luppi
È stato un Natale di tensione quello vissuto dalla popolazione del Sud Sudan e, con l’inizio del nuovo anno, si cercano soluzioni credibili ad una crisi che rischia di trascinare il Paese nel baratro di un nuovo conflitto. Molto dipenderà dai negoziati in corso ad Addis Abeba tra il governo e i ribelli fedeli all’ex vice-presidente Riek Machar. Intanto sul terreno si intensificano gli scontri che hanno spinto il presidente Kiir a proclamare lo Stato di emergenza negli stati di Unity e Jongley di cui i ribelli (per lo più ex soldati passati alla ribellione) controllano i capoluoghi. La preoccupazione è che gli scontri possano portare ad un conflitto su larga scala tra le due principali etnie del Sud Sudan: i Dinka a cui appartiene Salva Kiir e i Nuer di Machar.
Una lotta di potere, non etnica. “Sono molte le voci che si rincorrono in questi giorni, ma è difficile prevedere come potrà evolvere la situazione”, racconta al Sir da Juba, Enrica Valentini, direttrice del Catholic Radio Network (CRN), che raggruppa le radio cattoliche del Sud Sudan. Gli scontri, tra diverse fazioni dell’esercito, sono scoppiati il 15 dicembre scorso nel cuore della capitale. Poche ore dopo il presidente sud sudanese Salva Kiir ha denunciato un tentativo di colpo di Stato da parte di Machar e di un gruppo di oppositori. Accuse respinte dal leader dei ribelli che ha però deciso di prendere le armi contro lo stesso presidente, invocandone le dimissioni. “È evidente – continua Valentini – che la crisi sia nata all’interno di una faida tutta politica tra Kiir e Machar (allontanato solo pochi mesi fa dal governo). La componente etnica sembra più uno strumento, utilizzato da entrambi i leader per cementare i rispettivi gruppi, ma parlando con la gente, non posso nascondere come vi sia chi inizia a parlare di un conflitto etnico in corso”.
“È la prima volta che non celebriamo il Natale”. Tra le città maggiormente colpite c’è Malakal, capoluogo dell’Upper Nile, caduta proprio alla vigilia di Natale nelle mani dei ribelli. “Il giorno di Natale – racconta suor Elena Balatti, missionaria comboniana – la città è stata saccheggiata a partire dal mercato”. Il giorno successivo la città è stata riconquistata, ma la missionaria testimonia la grave crisi umanitaria in corso: “Le riserve di cibo ai mercati sono state in gran parte distrutte, il piccolo e grande commercio è stato colpito in modo tale che ci vorrà un anno se non di più per riprendersi. L’esercito ora controlla saldamente le periferie della città e coloro che si erano rifugiati nella base delle Nazioni Unite hanno cominciato a rientrare. Forse la gente abituata ad anni e anni di conflitto riesce a non disperarsi e a ricominciare dal pochissimo che loro rimane. La crisi di questi giorni è stata particolarmente grave, come ha commentato una delle parrocchiane della cattedrale: ‘È la prima volta che non celebriamo il Natale’”. Secondo le Nazioni Unite sono già 180mila i nuovi sfollati. Molti di loro hanno trovato protezione nelle basi dell’Onu, ma altri restano in zone inaccessibili, specialmente dopo l’evacuazione di parte del personale umanitario.
Cercando un accordo. Quale ruolo del petrolio? È in questo contesto che si guarda ai negoziati in corso in Etiopia. Un tavolo politico da cui non potrà rimanere escluso il tema del petrolio, risorsa strategica fondamentale per il Paese (rappresenta il 98% delle entrate statali). “Sono in molti – conclude la direttrice del Crn – ad avere interesse a che il petrolio continui a scorrere. Questo potrebbe portare a crescenti pressioni internazionali per la fine delle ostilità. Resta da capire quale ruolo potrà avere il Sudan, storicamente rivale del Sud Sudan, ma credo che anche il governo di Karthoum a causa delle difficili condizioni economiche in cui vive, non abbia interesse ad una nuova guerra. Il petrolio sud sudanese può essere esportato, infatti, solo tramite gli oleodotti sudanesi e questo per il nord, significa incassare tasse e compensi per il transito. Ma se il petrolio si ferma, si fermano anche i pagamenti”.

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