favreDi Marco Doldi
“Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce, dolce…”. In questi termini Papa Francesco ha descritto Pietro Favre (1506-1546), il primo compagno di S. Ignazio di Loyola. La sua figura, rimasta forse un po’ in ombra sino ad oggi, è particolarmente cara al Santo Padre, che nei giorni prima di Natale, ha esteso la sua memoria liturgica alla Chiesa universale, iscrivendolo così nel catalogo dei santi.
Un recente profilo descrive Favre come “uomo dal carattere riservato e sensibile, dal cuore tenero e dallo spirito acuto” (Santiago Madrigal). Egli si vide coinvolto nelle gravi lotte della Riforma e negli avvenimenti più importanti dell’epoca. Fu missionario e teologo, guida spirituale, uomo dalla solida formazione intellettuale e dalla squisita sensibilità spirituale, e in prima linea nella Compagnia di Gesù appena nata, percorrendo in pochi anni la Francia, l’Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Spagna e la Germania. Un gesuita dallo sguardo estremamente lucido su se stesso, capace di coniugare la delicatezza umana con la sicurezza dottrinale.
Perché Papa Francesco lo considera un modello di vita, ispirandosi a lui nella sua opera di riforma? La risposta forse può essere cercata nelle vicende storiche del Cinquecento: “Fin dall’inizio di quel secolo tutti si rendevano conto che era necessaria una seria riforma della Chiesa, ma i vari tentativi posti in atto dal vertice – ultimo fu il Concilio Lateranense V – 1512-1517 – non sortirono alcun effetto” (Enrico Cattaneo). Quale via intraprendere? Lutero – è noto – scelse quella di scagliarsi violentemente contro la Chiesa di Roma, responsabile, a suo dire, di essersi allontanata sempre più dal vangelo di Cristo. Diversamente Ignazio di Loyola e i suoi compagni.
Il fondatore della Compagnia di Gesù, che nacque nel 1537, esattamente vent’anni dopo che Lutero aveva pubblicato le famose 95 tesi, era convinto che la riforma passasse non attraverso la ribellione nei confronti della Chiesa di Roma, ma tramite la testimonianza della vita, cui i gesuiti erano chiamati. Per Ignazio non si trattava di modificare la struttura dottrinale, ma di riformare le persone da dentro. Ad esempio, non si doveva abolire il sacerdozio perché vi erano cattivi ministri, ma portare i sacerdoti a riformare la propria vita. Se a quel tempo non pochi intraprendevano il ministero a motivo di una sicurezza materiale, gli Esercizi spirituali dovevano aiutare a scegliere o confermare la vita religiosa.
E S. Pietro Favre si è dedicato a questo: direzione spirituale, insegnamento, conferenze, sermoni, predicazione degli Esercizi di S. Ignazio, visita ai poveri e ai malati. Così ha contribuito alla riforma della Chiesa in modo “dolce, dolce”. Le sue Memorie spirituali sono ancora oggi una miniera di insegnamenti. Qui raccomanda la riforma non senza la carità. La necessaria soppressione degli abusi nella Chiesa come nella società civile avviene spesso “dietro la spinta di uno zelo glaciale ed amaro per la giustizia, piuttosto che nel fervore della carità” (Memoriale, 5 aprile 1545). O indica la vetta cui era giunto: “Capii quanto sarebbe efficace, qualora si volesse sperimentare la misericordia di Dio nei nostri riguardi, esercitare noi stessi tale misericordia; ci accorgeremmo con facilità che Dio donerebbe in modo gratuito, se da parte nostra dessimo liberamente noi stessi e le nostre cose” (27 giugno 1543).
La sua figura e il suo insegnamento sono davvero una chiave di lettura importante dell’odierno pontificato.

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