MessaDi Cristina Dobner

Il folklore natalizio è esuberante, molto spesso appiccicoso se non deviante. Il grosso rischio è quello di arrestarsi al party della stagione delle feste, immerso in luci da luna park, contornati da stereotipi di babbinatale, stelline o paesaggi innevati e renne scalpitanti che vogliono creare un clima di divertimento, di diversivo dal grigiore quotidiano.
Abbiamo assistito, nel giro di qualche decennio, a una virata: dalla devozione al Bambino di cera e al presepe che, bene o male, richiamava il grande mistero che il Vangelo annuncia, all’esclusione di ogni riferimento religioso per metterne in primo piano i segni svuotati e, perciò stesso, illusori e mistificanti.
Da qui l’urgente necessità di riprendere il significato del Natale e della ragione di una festa così sentita e celebrata.
Francesco formula un augurio in due battute che colpiscono al centro del messaggio annunciato dalla nascita del Bambino:

Che il Signore ti scriva la storia:

Colui che nasce, al di là di ogni romanticismo edulcorante, è il Figlio di Dio che entra nella nostra storia di persone non come uomo possente, gigantesco o come potente discendente da stirpe regale o da magnate dei commerci, ma nel corpicino di un neonato di una famiglia di lavoratori, non proprio badilanti ma indubbiamente artigiani. Irrompe proprio in questa veste dimessa nella storia del mondo e dell’umanità, Colui che il Padre ha guardato per infondere la Sua Bellezza nella creazione e vuole scegliere la modalità più povera, più semplice, più banale si direbbe. Con l’Incarnazione tutto cambia nel mondo perché i valori umani di potenza, di pregio, di presenza altolocata, vengono messi da parte e la storia di ciascuno e di ciascuna deve, se vuole dirsi cristiano/a, assumere un’altra plasticità. I parametri nostri, penso alla mirabile maschera funeraria d’oro di Tutankamen e il suo percorrere i secoli, cede dinanzi al fulgore della vita immersa nel mistero di Dio, non immortale perché ognuno sa di dover morire, ma risorta nella sua bellezza eterna.

e che tu lasci che Lui te la scriva.

Solo guardando a Colui che si incarna così umilmente, il libro della vita può essere scritto dal Signore stesso che testimonia l’amore del Padre e invita a seguirlo. La vicenda umana, colorata da tutti gli eventi possibili, ha come grande Scrittore questo neonato che non promette una celebre maschera d’oro ma il Volto di Dio che traspare nel tessuto di una vita spesa nella tensione orante e nel servizio disinteressato verso gli altri. Se si lasciasse aperta la pagina del nostro libro, migliaia di bambini non morirebbe di fame perché si spreca, a tutti i livelli sociali, con uno sdegno maggiore però per chi si crogiola nel lusso e nel fatuo sollazzarsi; i migranti potrebbero vivere nel loro Paese e non affrontare viaggi umilianti e rifiuti da chi non si lascia scuotere dalla cellulite interiore; non ci troveremmo quasi ogni giorno difronte alla scoperta di peculato, di truffe da parte di chi gestisce il bene comune; i nostri giovani avrebbero un futuro cui guardare e non un quotidiano da difendere con i denti.
Per comprendere però il neonato che ha deciso di nascere proprio come tutti noi da infante, cioè senza parola, bisogna imparare la legge del silenzio, del cuore orante, nei momenti in cui regna solo l’adorazione di Dio.
Ritagliare spazi nel vortice degli impegni per guardarci dentro ed essere proiettati sul grande dono misterioso di un Dio che sceglie la ristretta misura umana come suo confine.
Non si cadrebbe nel fatalismo di chi affida tutto e tutti a un intervento sconvolgente (e il più delle volte rivolto a proprio favore!) in qualche modo, ristrutturante gli equilibri compromessi, ma nella libera decisione di fare tutto il possibile quanto è in noi per cambiare il nostro vissuto.
Ignazio di Loyola è stato chiarissimo: fare tutto come se tutto dipendesse da Dio solo ma anche tutto come se dipendesse da noi soli.
Solo allora la mano di Dio può tracciare i segni giusti sulla pagina della nostra vita.

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