- L'Ancora Online - https://www.ancoraonline.it -

Repubblica Centroafricana

guerraGiulio Albanese
Incastonata in una delle zone più nevralgiche del grande scacchiere Sub-sahariano, la Repubblica Centrafricana è precipitata nell’oblio più assoluto, a seguito di una sanguinosa guerra civile. La scintilla che ha innescato lo stato di conflittualità è stata la nascita, nell’agosto del 2012, della Coalizione Séléka in cui sono confluite diverse formazioni tra cui figurano la Convenzione dei patrioti per la giustizia e la pace (Cpjp), la Convenzione dei patrioti della salvezza e del Kodro (Cpsk), l’Unione delle forze democratiche per il raggruppamento (Ufdr), il Fronte democratico del popolo centrafricano (Fdpc) e l’Alleanza per la rinascita e la rifondazione (Arr). Dopo alterne vicende, la Séléka ha preso il potere, lo scorso 24 marzo, rovesciando il governo del presidente François Bozizé. Sta di fatto che da allora il Paese è in agonia. Non c’è giorno che passi senza che avvengano saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri e torture contro i civili. Il presidente golpista Michel Djotodia, leader della Séléka, da quando ha deciso di sciogliere la coalizione, lo scorso settembre, non ha più il controllo della situazione per il costante e progressivo ingresso nel Paese africano di mercenari sudanesi e ciadiani, molti dei quali inquadrati all’interno di cellule eversive jihadiste. Nel frattempo, si sono formati alcuni gruppi armati che combattono con l’intento di portare nuovamente al potere Bozizé.
Dal punto di vista strategico, l’oggetto del contenzioso è rappresentato dalla smisurata ricchezza del sottosuolo di questa ex colonia francese. A parte i giacimenti di petrolio a Birao, capoluogo della più settentrionale tra le 14 prefetture del Paese, quella di Vakaga, vi è una quantità notevole di diamanti nei grandi depositi alluvionali delle regioni occidentali del Paese. Come se non bastasse, sono anche stati identificati depositi di oro, ferro e, soprattutto, uranio. Quest’ultima fonte energetica è localizzata a Bakouma, una località a circa 500 chilometri dalla capitale, Bangui.
Sebbene l’ex presidente Bozizé fosse un personaggio a dir poco controverso, avendo una spiccata propensione per il nepotismo, già nel 2007 si era ribellato contro l’egemonia delle imprese minerarie francesi. I dissapori sulle concessioni per lo sfruttamento del petrolio da parte della Total e dell’uranio tanto caro alla potentissima società Areva hanno fatto sì che Bozizé, per così dire, fosse “scaricato” dal governo del presidente François Hollande e dunque costretto all’esilio. D’altronde, fonti ben informate ritengono che la Cina, già dal 2008, fosse disposta a fare carte false, pur di ottenere le concessioni di cui sopra. Nel frattempo, come già detto, all’interno della Séléka sono confluite diverse anime del dissenso, ma anche alcune componenti dell’estremismo islamico, foraggiate dal salafismo di matrice saudita.
L’accanimento delle cellule jihadiste contro la società civile (onesti cittadini, comunità cristiane e anche musulmani moderati) ha fatto sì che questo conflitto civile, assumesse anche una valenza religiosa. In effetti, dal punto di vista fenomenologico, si tratta più che altro di una palese strumentalizzazione della religione per fini eversivi. In tutto questo contesto, gli Stati Uniti, solo in tempi recenti, hanno dato l’impressione di svegliarsi dal letargo, esprimendo preoccupazione per le vicende centrafricane. E dire che Washington dispone di Africom, un’unità di comando, formalmente attiva in Africa dall’ottobre 2008, responsabile delle operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano in funzione antiterroristica.
Nei giorni scorsi, la Francia, con il placet del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha deciso di inviare un migliaio di uomini in Centrafrica per tentare di normalizzare la situazione. Al momento, però, nessuno dispone di una sfera di cristallo per fare previsioni. I delicatissimi problemi di “state-building” fanno di questa martoriata nazione africana la cartina al tornasole del pensiero debole di una politica internazionale incapace di affermare la globalizzazione dei diritti.