GiancarloDi Francesco Rossi
“Liberi tutti”. Le parole dell’industriale Francesco Merloni delineano le prospettive derivanti dallo scioglimento del patto di sindacato di Rcs Mediagroup, società editrice del primo quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”. Il patto, al quale aderivano i 13 maggiori azionisti e che cesserà anticipatamente entro fine ottobre, serviva a controllare la maggioranza assoluta del capitale ordinario della società. I “grandi soci”, in una nota diramata ieri, hanno comunicato di “aver condiviso la ferma convinzione che una gestione e una “governance” efficiente, altamente responsabile, non richiedano più il tipo di collaborazione assicurata dal patto ora in scadenza”, convenendo che l’accordo “non venga ulteriormente rinnovato”. E ora? “Tutto sommato questa è una buona notizia”, commenta al Giancarlo Galli, esperto di economia e finanza nonché scrittore ed editorialista di “Avvenire”.
Galli, perché dice che è una buona notizia?
“Non dispiace che un giornale possa fare informazione, e non essere portavoce di una coalizione d’interessi. Quando si sa chi è l’editore si può capire anche l’influenza che ha sulla linea del giornale, ma se ci sono tanti interessi diversi la testata – pur prestigiosa – finisce per restare ingabbiata”.
 
Facciamo un passo indietro: a cosa serviva il patto di sindacato?
“I patti di sindacato garantiscono la non belligeranza tra i maggiori azionisti, legati da interessi comuni. Nel caso di un quotidiano, questo comporta che la gestione di determinati settori – generalmente politica ed economia – sia estremamente cauta, per non dare notizie sgradite agli azionisti stessi”.
Non è certamente solo il “Corriere” ad annoverare azionisti con interessi in ambiti diversi…
“Infatti, il problema è che in Italia mancano gli editori puri. A memoria, non esistono nel resto del mondo banche che possiedono giornali, mentre da noi avviene anche questo: Mediobanca, ad esempio, è finita nel calderone degli azionisti dopo la fine dell’era Cuccia, che si era sempre opposto a tale commistione”.
 
E adesso? Che ne sarà dei soci di Rcs?
“Innanzitutto ci sono aziende che non vogliono più investire nell’editoria. È la crisi del consociativismo italico: oggi che l’Italia si sta deindustrializzando costoro non hanno più interesse a restare nell’azionariato di un giornale perché il prezzo – economicamente parlando – è troppo alto rispetto ai benefici”.
 
Quindi venderanno?
“Le voci indicano, in prospettiva, un’unione tra ‘Stampa’ e ‘Corriere’, con un aumento della presenza della Fiat nel capitale di Rcs. Questo non significherà una fusione delle testate, ma della struttura editoriale, delle tipografie, della raccolta pubblicitaria ecc.”.
Poi avremo due giornali di proprietà della casa automobilistica?
“No, poi la Fiat venderà, perché non ha più interesse ad avere un giornale suo, come a inizio Novecento, quando Agnelli rilevò ‘La Stampa’. A Torino, allora, c’erano la Fiat e il quotidiano di Frassati, poi passato nelle mani di Agnelli. Ma ora che la Fiat è a Detroit… Nel futuro, dunque, mi aspetto un ‘Corriere’ targato Murdoch, o comunque con una proprietà straniera”.
Così un altro pezzo di “storia” italiana finirà all’estero…
“Non è necessariamente un male. Abbiamo l’europeizzazione delle banche e della finanza, perché non dovremmo averla dei giornali? I ‘salotti buoni’, ovvero i nostri consigli d’amministrazione, sono il retaggio di un provincialismo nazionalistico che appartiene al passato. E poi, un editore straniero potrebbe fare un giornale secondo la sua ‘mission’, capace di parlare anche di politica ed economia finalmente libero da vincoli nostrani”.

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