VajontDi Carlo Arrigoni

Ore 22.39 del 9 ottobre 1963: una grande frana si stacca dal monte Toc e piomba a grande velocità nel bacino artificiale della diga del Vajont provocando un’onda che in un’istante si abbatte su Longarone e su alcune sue frazioni, cancellando tutto ciò che incontra sulla sua strada e trasformando l’ambiente, fatto di case, di industrie, di strade, in una sorta di spiaggia, proprio come accade in riva al mare quando l’acqua di un secchiello viene rovesciata sulla sabbia e cancella ogni rilievo precedente.
Una furia di pochi secondi che provocò 1.910 morti e che distrusse un’intera comunità. Una tragedia che subito suscitò tanto scalpore e una forte commozione, insieme a un moto di grande solidarietà concretizzatosi con l’arrivo di migliaia e migliaia di volontari pronti a dare una mano per affrontare la terribile situazione: dal recupero delle vittime (avvenuto, per alcune, anche a decine di chilometri di distanza, lungo le sponde del Piave) al loro riconoscimento (che in molti casi non fu possibile a causa della furia distruttrice dell’onda assassina); dagli interventi di soccorso e sollievo immediati, alle prime opere di ricostruzione.
Distruzione e morte. Solidarietà e rinascita. A distanza di cinquant’anni è ancora questo l’orizzonte in cui si colloca il disastro del Vajont. Una tragedia di proporzioni tali da non essere stata scandagliata ancora fino in fondo (se mai lo potrà essere) e che è ancora lontana dall’esaurire il suo portato di significati e di messaggi, validi per la comunità di Longarone e per la montagna bellunese in cui quel paese è collocato, ma non soltanto. Di qui l’esigenza di continuare ad approfondire e a tramandare la memoria di quanto è capitato, per fare del suo ricordo e dei suoi insegnamenti un monumento ben visibile, un faro che possa aiutare chiunque, privato cittadino o pubblica istituzione, a porsi nel giusto atteggiamento verso l’ambiente, a sapersi fare carico di dolore e di morte, a diventare capace di progettare e assistere la delicata e decisiva fase di una ricostruzione.
Le numerose manifestazioni del cinquantesimo anniversario della tragedia che già ci sono state e che troveranno il loro culmine a Longarone oggi (mercoledì 9 ottobre) nella cerimonia che vedrà la presenza del presidente del Senato e nella successiva Santa Messa nella chiesa monumento progettata dal Michelucci come fosse un’onda, rappresentano altrettante pietre che stanno contribuendo a innalzare, a rendere più visibile e intelligibile il monumento alla memoria del Vajont. Un monumento che in queste ultime settimane ha visto aggiungersi, a tante altre sue componenti, anche quelle delle scuse formali di esponenti del governo, ma anche di ordini professionali, come i geologi, che hanno pubblicamente riconosciuto gli errori compiuti in passato. Scuse che sono state apprezzate e che contribuiscono a dare i giusti contorni a una vicenda che per tanti anni si è cercato di minimizzare e che, comunque, non è stata percepita dall’opinione pubblica in tutta la sua valenza, soprattutto riguardo alle responsabilità di chi poteva intervenire e non l’ha fatto (il processo si è concluso con il riconoscimento di responsabilità penale per la prevedibilità di inondazione e frana e per gli omicidi colposi plurimi). Un cinquantesimo insomma per mantenere viva nella storia e nella coscienza collettiva la consapevolezza che esiste una ben precisa gerarchia di valori che, una volta infranta, apre la strada a gravi disastri. Che le ragioni della sicurezza delle persone e del rispetto dell’ambiente vanno fatte sempre prevalere rispetto alle prospettive di convenienza, di prestigio e di guadagno. Che dalle tragedie si può rinascere e che anche dalle ferite più dolorose, tramite la solidarietà e una cura adeguata, possono sortire nuovi orizzonti di bene.

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