campiAsmen Dachan
Nel nord della Siria, al confine turco, sorgono numerosi campi profughi che ospitano famiglie siriane provenienti soprattutto dalle città del nord. Per conoscere da vicino, nel profondo, il dramma di queste persone che sono fuggite dalle loro case e dalle loro città e hanno trovato rifugio in questi accampamenti, decido di visitarne più di uno; prima di iniziare il viaggio avevo chiesto il permesso di dormire una notte in uno di questi campi. Non è una richiesta semplice da esaudire, con tutte le questioni di cui i gestori di un campo profughi devono occuparsi, ma ricevo una risposta affermativa. L’ingresso in Siria è un susseguirsi di posti di blocco, ma finalmente sono dentro. Per la prima volta in vita mia sono “a casa”; non ho mai visto la Siria prima d’ora, nonostante sia la terra delle mie origini e sono consapevole di entrarvi e trovarla esanime. Di fronte ai miei occhi si susseguono distese di tende; quella che, per dimensioni ed estensione, sembra quasi una città, è il campo profughi di Atma. Mi raccontano che è arrivato a ospitare fino a 28mila persone; attualmente vi risiedono circa 20mila profughi. Sarà l’ultima tappa del mio tour a Rif Idlib.
Arrivo a “Mukhayam al shuhadaà”, il Campo dei martiri, nelle prime ore del mattino; trovo ad attendermi il fondatore e i responsabili del campo; il primo si scusa di non potermi accompagnare nella visita per un’emergenza e mi affida a un collega. Si presenta: “Mi chiamo Abu Subhi, sei la ben venuta nella nostra famiglia. Qui ospitiamo soprattutto bambini orfani di padre o di madre con qualche parente e famiglie che hanno subito la perdita di alcuni membri. Li consideriamo tutti martiri e da questo deriva il nome del campo. Ti mostro la tenda dove dormirai stanotte, insieme alla famiglia di Em Mahmud”. Avviandoci verso quello che sarà il mio alloggio, vedo tanti bambini che camminano, corrono, giocano. Alcuni sono intorno alle fontane: l’acqua arriva solo due volte al giorno e bisogna approvvigionarsi con pentole, bottiglie, barili. Nelle tende e nei bagni comuni l’acqua corrente non esiste. Abu Subhi ha un saluto e una parola buona per tutti. Mi rendo presto conto che oltre ad occuparsi delle questioni operative, quell’uomo sulla quarantina è un po’ il papà di tutti quei piccoli, la spalla e l’appoggio di quelle donne rimaste sole. Mi racconta che il campo, inaugurato un mese e mezzo fa, si estende su una superficie di 8mila metri quadri, conta 110 tende, ospita 700 persone, tra cui 225 bambini da 0 a 12 anni e altri 200 minorenni.
Arriviamo all’ultima tenda della fila centrale; mi accoglie una donna giovanissima, che mi abbraccia e mi invita a entrare in quella che è la sua “casa”. Ci sediamo per terra e subito mi offre un bicchiere d’acqua fresca, versandomelo da un termos. Nelle tende la corrente arriva solo due o tre ore al giorno grazie a un generatore. Ci sono due materassi ai lati e sopra ci sono due bimbi che dormono. “Questi sono i miei figli”, mi racconta Em Mahmud; il nome della mia ospite è Wisal e, come vuole la tradizione siriana, viene chiamata col nome del primogenito: Em, madre, Mahmud, il figlio che ha cinque anni. Il piccolino si chiama Bilal e ne ha quattro. Cominciamo a parlare e subito mi chiede come faccia a parlare arabo così bene e da dove abbia origine il mio accento aleppino. Le racconto che sono figlia di siriani, entrambi di Aleppo, ma che sono nata e cresciuta in Italia. A quel punto mi confessa che si sente sollevata: era stata avvisata dell’arrivo di una giornalista italiana e si era resa disponibile ad ospitarla, ma era preoccupata per il problema della lingua e anche per il fatto che un visitatore esterno avrebbe vissuto l’esperienza al campo marginalmente, mentre una persona con sangue siriano avrebbe provato un’empatia più profonda verso i suoi consanguinei. Così è. Mi sento tra i miei familiari e vederli in quella situazione è un dolore infinito.
Wisal comincia a raccontarmi alcuni aspetti della vita del campo, mi chiede cosa mi può servire per il mio reportage, poi mi accenna la sua storia e alcune storie molto significative delle persone che abitano al campo. Ogni tenda è una tragedia, mi dice sconsolata. Mentre parliamo entra il marito. Anche lui è un uomo giovane, è un ex poliziotto defezionato. Ha portato il pranzo da fuori, uscendo appositamente per comprarlo. Sono persone semplici, gentili, di grandissima dignità e ospitalità. Mentre mangiamo Wisal mi racconta cosa l’ha portata lì. “Siamo originari di Hass; il giorno prima di fuggire dal nostro villaggio abbiamo contato tra le cinquanta e le sessanta bombe piovute sopra il nostro villaggio. Appena c’è stato un momento di tregua abbiamo cercato di fuggire. Mio marito era nascosto in un villaggio vicino già da qualche giorno. Da tempo era preso di mira dai suoi superiori, perché disobbediva agli ordini: inizialmente gli avevano chiesto di prendere a manganellate i manifestanti e fotografarli per identificarli e arrestarli; non lo aveva mai fatto, limitandosi a urlare contro di loro per spaventarli; lì aveva ricevuto il primo richiamo. Successivamente era stato imposto alla sua divisione di molestare le ragazze che prendevano parte ai cortei, sequestrando quelle più giovani e graziose; anche lì aveva disobbedito, limitandosi ancora una volta a fare la voce grossa e ricevendo minacce pesanti dai suoi preposti. Quando, infine, gli hanno intimato di sparare ai giovani manifestanti, puntando alle ginocchia e alla testa, ha preso la decisione di disertare. Mio marito non è un martire, è ancora vivo, ma è come se gli avessero ucciso l’anima. Non ha mai voluto raccontarmi quello che ha visto in caserma, ma se è arrivato a disertare, mettendo a rischio la sua e la nostra vita, posso solo dedurre che era qualcosa di drammatico. Spesso mi dice che è in pena perché con la sua scelta ci ha portato alla fuga, fino al campo profughi, ma io sono fiera di lui e gli dico che vivere onestamente da profughi significa essere felici, mentre sporcarsi le mani col sangue degli innocenti significa morire ogni giorno. Ora è addetto alla sicurezza del campo”.
Wisal mi porta da una tenda all’altra; ogni volta che entriamo ci danno il benvenuto e ci offrono qualcosa: un caffè, un the o dell’acqua fresca. Sembra davvero che mi accolgano nelle loro case. Incontro Jaj Mohamed, che ha perso ad Hama quattro figli, cinque nipoti e la moglie; incontro Em Hassun, che ha raccolto i corpicini dei suoi figli a brandelli nel cortile di casa. Incontro bambini, tanti bambini; hanno gli occhi grandi, espressivi; parlano con i loro sguardi di dolore e speranza. Al campo hanno costruito loro un’area giochi.
Quando scende la notte fatico a prendere sonno: ho ascoltato storie drammatiche, ho guardato la sofferenza impossessarsi dei volti di bimbi, donne e uomini segnati per sempre. Anche Wisal non riesce a dormire, così chiacchieriamo come due vecchie amiche. Ci chiediamo come sarà la Siria di domani, che mondo vedranno i nostri figli. Mi chiede di raccontarle dell’Italia. Prima di chiudere gli occhi sollevo un lembo della tenda. Guardo la luna; è quasi piena. È la mia prima luna siriana, è la mia prima notte in Siria.

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