Di Paolo Bustaffa

Voce dal sen fuggita più ritirar non vale, non si trattien lo strale quando dal sen fuggì” la fin troppo nota declamazione del Metastasio è tornata più volte alla mente mentre parole acuminate come frecce hanno attraversato anche in questi giorni gli spazi del web, della tv, della carta stampata, della piazza, dei palazzi.
Non è stato, e non potrà mai essere, uno spettacolo esaltante e ancor meno indolore vedere persone colpite nella dignità e nei diritti.
Forse ci si sta abituando a un tipo di comunicazione offensiva ed è questa assuefazione il rischio maggiore che minaccia una coscienza e una cultura che appaiono spesso in sonno.
Distinguere le male parole dalle buone parole è una responsabilità che si costruisce con onestà intellettuale attraverso un’educazione al cui centro è il rispetto dell’altro, del diversamente pensante e del diversamente credente.
Ed è proprio in questo ambito che nasce una domanda carica di preoccupazione: “Che ne è stato, che ne è dell’educazione se si arriva a lanciare parole come sassi e a interpretare il lancio del sasso come il lancio di un petalo di rosa?”.
Sì, perché le parole – a meno che siano solo fiato uscito dalla bocca – dovrebbero esprimere la profondità di un pensiero, di un sentimento interiore, di una visione alta dell’uomo, di un grande ideale.
Ciò non significa che in un momento d’impeto non possa scappare anche una parola sopra le righe: la gravità nasce quando la cattiva parola e la sua giustificazione diventano un metodo, uno stile del comunicare, ammesso che il rancore e l’ingiuria possano conciliarsi con la comunicazione.
Ci sono però accanto ai cattivi maestri del parlare coloro che, seppur da loro feriti, rifiutano la lezione e replicano con il linguaggio della ragione, della serenità, della dignità, del rispetto.
Anche i media, salvo scontate eccezioni, non sono tra i più accaniti sostenitori delle male parole e avvertono la responsabilità professionale di dare spazio e voce alle buone parole attraverso i volti dei destinatari di battute offensive o insipienti.
Il problema si pone in modo diverso, ma non meno preoccupante, nella rete ma in questo spazio la riflessione sulla responsabilità e sulla libertà deve ancora molto maturare. Proprio per questo motivo la rete non è da abbandonare a se stessa ma è un luogo da abitare con intelligenza accettando la sfida di dimostrare che anche un linguaggio graffiante non ha bisogno, per essere tale, di rinunciare al rispetto dell’altro. Anche perché c’è un nodo nella rete da non sottovalutare.
“Nescit vox missa reverti”, la parola, una volta pronunciata, non può tornare indietro, scriveva Orazio e oggi ogni parola rimane scolpita per sempre nel web. La memoria dell’uomo e la memoria del computer non sono la stessa cosa.
Il ricordare freddo e meccanico “per sempre” della rete non può che esigere un supplemento di responsabilità da parte di chi parla, di chi scrive parole, di chi trasmette immagini.
Si torna così al grande tema dell’educazione e della formazione della coscienza attorno al quale l’uso non innocuo delle male parole richiama il compito irrinunciabile di famiglie, istituzioni, comunità cristiane, media.
I buoni maestri non mancano in questa difficile e affascinante impresa e la loro lezione è soprattutto nello stile e nei contenuti di quelle risposte che vengono date, con la forza disarmata della ragione e della pacatezza, a parole urlate contro una singola persona ma che ribalzano, ferendola, contro l’umanità intera.
In questo processo di educazione all’uso delle parole anche i media si interrogano e si ravviva quell’etica professionale che riesce a dare voce e volto a buoni maestri che non si improvvisano tali di fronte a un microfono o a una telecamera ma esprimono in quei pochi minuti di comunicazione la loro statura umana, intellettuale e spirituale. Una lezione di vita, un appello sereno e forte al risveglio della coscienza.

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