Di Riccardo Moro

Le manifestazioni popolari brasiliane di questi giorni hanno monopolizzato il dibattito nazionale e internazionale.
Le dimensioni della protesta hanno impressionato, ma ciò che più stupisce è che questa avvenga in un Paese che negli ultimi anni era apparso un esempio di successo.
Con programmi come Fame Zero, Borsa Familiare o Brasile senza miseria, il Brasile di Lula e di Dilma Rousseff ha ottenuto risultati nella lotta alla povertà.
L’economia è cresciuta nonostante la crisi mondiale, grazie alla scelta di privilegiare il mercato interno, a cominciare dai più deboli, e quello regionale.
Nelle sedi internazionali il Paese ha conquistato nuova autorevolezza guidando il gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) e agendo come attore determinante nei tavoli internazionali, dal G20 alle Nazioni Unite.
Ebbene proprio in questo Paese cosi apparentemente pieno di successi, milioni di persone si sono unite per protestare contro l’aumento dei prezzi dei trasporti, bloccando la nazione.
Una causa di questo tipo sembra sproporzionata per giustificare tanta mobilitazione.
Eppure proprio da questo è partita la protesta, e non si è fermata quando gli aumenti sono stati abrogati, anzi ha trovato nuova energia puntando il dito contro la corruzione e le spese per la costruzione degli stadi per i prossimi campionati mondiali di calcio, fatte quando mancano ancora ospedali per tutti.
Chi protesta è prevalentemente giovane, di istruzione superiore e non cerca la violenza, che si è sviluppata solo in poche eccezioni. Manifesta un disagio per le contraddizioni che le buone performance del Paese non hanno ancora eliminato, lasciando ancora oltre 16 milioni di brasiliani a vivere con meno di un euro al giorno. I vescovi brasiliani, in un documento firmato dal presidente della Conferenza episcopale, hanno espresso il loro sostegno ai manifestanti, quasi compiaciuti a vedere i giovani gridare: “il gigante si è svegliato!”. L’incoraggiamento dei vescovi, non scontato, si è aggiunto a quello della presidente Dilma, che ha ricevuto una delegazione dei manifestanti. Nell’incontro però, come già in piazza, è stato manifestato un disagio più che una domanda politica matura. Non c’è una proposta articolata ‘alternativa’ per il Paese.
Come già per il movimento delle banlieue in Francia, gli indignados spagnoli, occupy wall street e la mobilitazione di questi giorni in Turchia, stiamo assistendo all’espressione di un profondo malessere che non riesce ad esprimere una precisa proposta di cambiamento.
Questa è forse la cifra della crisi delle democrazie contemporanee. Le opportunità di informazione e formazione che la globalizzazione offre permettono una maggiore consapevolezza delle contraddizioni che caratterizzano le comunità di cui facciamo parte. Le persone, i giovani soprattutto, si rendono conto di volere qualcosa di diverso, ma i sistemi democratici non consentono un reale esercizio di partecipazione per ottenere il cambiamento cercato. E quella stessa globalizzazione che permette maggiore conoscenza crea anche una maggiore complessità che riduce la possibilità del singolo cittadino di incidere sul processo di formazione delle decisioni. Questa condizione alimenta un disagio sempre maggiore, che esplode, anche imprevedibilmente, nelle piazze. È una protesta popolare convinta e spesso originale, che rielabora simboli come la maschera di Guy Fawkes indossata dal vendicatore V o la statua di Atatürk che guarda l’orizzonte sul Bosforo citata dagli incredibili e meravigliosi Standing Men che stanno riempiendo le strade di Istanbul in questi giorni, ma non riesce a maturare una proposta politica, anche perché sono scarsi gli spazi per elaborarla.
La sfida per la politica sembra essere proprio su questo piano. Occorre una strategia coraggiosa e determinata per riaprire gli spazi di decisione offrendo protagonismi reali a cittadini e organizzazioni. Occorre una chiara scelta che miri a redistribuire il potere. Dalla legge elettorale in Italia ai privilegi fiscali in Brasile. Senza questo qualsivoglia soluzione tecnica per superare le crisi non potrà che rivelarsi sterile.

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