Di Marco Testi

Il web come promessa di una nuova realtà comunicante, senza barriere spaziali e materiali, era questa l’utopia: niente più solitudine se vivevi in un luogo senza amore e senza umanità (vero), fiducia che maggior comunicazione avrebbe potuto significare maggior democrazia (falso), convinzione che la quantità delle informazioni avrebbe rappresentato un progresso rispetto al passato e di conseguenza generato una superiore qualità relazionale (falso).
Se è vero che si apprendono più velocemente nozioni attraverso le enciclopedie in rete, è altrettanto vero che le nozioni di per sé non servono a molto: è la connessione tra dati e mente ad essere importante, è il senso critico ad aiutare a capire per chi e per cosa si sta operando, è l’autoconsapevolezza a dettare le condizioni di un effettivo progresso attraverso la nuova tecnica. Una compagnia fatta di byte, senza partecipazione empatica, rischia di essere uno spazio vuoto nel quale ci si sente, è lo si è, ancora più soli che nella città anonima o nel paesetto in cui tutti sanno tutto di tutti, e cioè niente.
Senza un forte senso del limite e senza una capacità di elaborazione critica, il grande fratello non è assente, ma è semplicemente occulto. La solitudine è acuita da un vuoto riempito di connessioni, e non di relazioni affettive. Lo si vede oggi nelle dichiarazioni di alcuni personaggi politici al centro del caso M5S: “Non posso competere con il blog da sola”, ha dichiarato la deputata Paola Pinna, evidenziando come si stia creando un clima di intimidazioni e di sospetti che il net rende ancora più inquietante, perché ti sbatte in faccia l’esser solo in una stanza con un mondo virtuale nemico che spia le tue interviste, le conta, le mette nella lista di buone e di cattive. La stessa senatrice Gambaro ha dato l’impressone kafkiana di una persona isolata e sola non per un delitto commesso, ma per le sue opinioni.
È la prova provata che internet non significa tout-court allargamento della coscienza, perché le differenze, il dibattito e le critiche hanno fatto da sempre la forza nobile e democratica dei partiti e delle organizzazioni. Non è cambiato niente rispetto al prima del web? la solitudine è ancora più inquietante e minacciosa oggi, in un tempo in cui il paradosso del tale che incontrandoti per strada ti dice sbrigativamente “scusami ma non ho tempo, devo correre a chattare con te al computer” non è così tanto paradosso, ma la nuda verità. C’è una solitudine più perniciosa nascosta nelle maglie dell’osannato net, quella dei nuovi numeri primi, i dissidenti, per esempio, ma anche quelli che non la pensano come il leader maximo o la massa; per lasciare la politica, anche i bambini in balia del web che non reggono al bullismo cyber, o alle minacce con o senza volto.
Ma attenzione, non creiamo un idolo polemico a senso unico: la solitudine esiste da prima del net, ed è quella che minaccia soprattutto i beati secondo il Cristo: i poveri in spirito, quelli che sono nel pianto, i miti, coloro che hanno sete di giustizia, gli operatori di pace, tutti quelli che vengono insultati non solo per la Parola ma per i loro convincimenti.
Una solitudine che in tanti hanno narrato e cantato, dal Chesterton dell’Uomo che fu giovedì ( “io dovevo essere solo nel terribile Consiglio dei Giorni” dice il protagonista che si è infiltrato in una banda di anarchici) al Bob Dylan di una canzone che è forse una delle più belle – e religiose – degli anni Sessanta, “Campane di libertà”: campane che risuonano per “i rifugiati, gli sfruttati, per il ribelle, il miserabile, lo sfortunato, il rifiutato, l’escluso costantemente bruciato al rogo”.
La solitudine è rimasta la stessa, veicolata dalla dismisura, dal senso di onnipotenza che schiaccia gli altri e dalle discriminazioni di ogni tipo.

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