Di Daniele Rocchi

“La comunità cristiana di Terra Santa è arrivata al 2%, il suo minimo storico come percentuale”: snocciola numeri, uno dietro l’altro, monsignor William Shomali, vescovo ausiliare di Gerusalemme e vicario per la Palestina del Patriarcato latino di Gerusalemme, per illustrare la situazione dei cristiani in Terra Santa, o per meglio dire della diocesi del Patriarcato.
“In Israele siamo il 2%, l’1,25% in Palestina, il 3% in Giordania, lascerei Cipro, che pur facendo parte della nostra diocesi, è in Europa. In totale, in questi tre Paesi, arriviamo a 400mila cristiani. Ma non sono solo i numeri a sfidare l’esistenza dei cristiani mediorientali, i più antichi abitanti della Regione, ma anche le persistenti condizioni di conflitto in cui si trovano a vivere. Pressati anche dalla primavera araba che non poche preoccupazioni fa nascere nei cristiani, visto anche ciò che sta accadendo in Egitto, Siria, Tunisia, tanto per citare qualche esempio, dove l’islamismo sta prendendo sempre più piede, i cristiani di Terra Santa, spiega il vescovo Shomali, sono attesi da cinque grandi sfide. In gioco la loro stessa esistenza.

Mons. Shomali, quali sono queste sfide?
“La prima è quella di superare la dimensione sociale della fede, tipica nel Medio Oriente. La fede qui è percepita come un segno di appartenenza ad un gruppo sociale ma occorre approfondirla. Senza di questo è inutile parlare di Chiesa e di comunità. La seconda è cercare di guarire dal complesso di inferiorità che ci deriva dall’essere minoranza e che spinge i nostri fedeli a vivere chiusi nei loro quartieri. Dobbiamo reagire aprendoci quanto più possibile”.

Cosa comporta questa apertura in termini di fede e di appartenenza?
“Un impegno nel campo dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, che sono altre due sfide importanti. Siamo pochi e pure divisi in tredici chiese diverse che appartengono a tre famiglie, la cattolica, l’ortodossa e la protestante. Sul piano dei rapporti con le altre denominazioni cristiane sono stati fatti sforzi notevoli come la decisione della Chiesa cattolica locale di adottare il calendario giuliano per celebrare la Pasqua, già da questo anno, insieme agli Ortodossi”.

La sfida del dialogo con ebrei e musulmani, invece, su che piano si gioca?
“Il dialogo con ebrei e musulmani è irrinunciabile. Ma non dobbiamo dialogare perché minoranza ma perché ce lo ha insegnato Cristo. In questo dobbiamo seguire le orme di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI che tanto hanno insistito nel ricercare la via del dialogo anche attraverso l’incontro”.

Nella sua disamina sui cristiani di Terra Santa sembra mancare la sfida della pace. O forse è una sfida già persa?
“Casomai è la sfida più grande. La pace non arriva anche se la speranza resta. La situazione sul terreno si complica sempre di più e rischia di far diventare la pace un’utopia. Questo perché il carattere del conflitto è ideologico, e non solo politico, ed investe questioni nodali come i confini dei due Stati, le indennità da corrispondere agli ebrei che hanno lasciato il mondo arabo, il ritorno dei profughi, gli insediamenti israeliani edificati sui Territori palestinesi, la proprietà delle sorgenti di acqua, dello spazio aereo. Poi il nodo più grande: lo status di Gerusalemme. A chi appartiene? Gerusalemme è lasciata in fondo al negoziato, perché è un caso difficile da affrontare, il compromesso non sarà possibile. Quanti Segretari di Stato Usa sono venuti qui per risolvere il conflitto? Tanti, purtroppo nessuno è riuscito a farlo. Credo che tutto sia nelle mani del Signore. Se è caduto il muro di Berlino allora anche la pace qui sarà possibile, ma solo grazie a Dio”.

Le percentuali in calo per i cristiani di Terra Santa testimoniano che in migliaia sono emigrati all’estero. Come è possibile convincere i cristiani a restare?
“L’emigrazione cristiana è dovuta alla grave situazione sociale, politica, religiosa ed economica di questa terra. È paradossale che ci siano più cristiani originari della Terra Santa in Cile che nella stessa Terra Santa. Come convincere i nostri fedeli a restare? Non bastano case e lavoro: serve la pace. E poi devono capire che essere cristiani qui è un privilegio, una vocazione”.

Vale anche per i cristiani di Gaza, forse quelli che stanno peggio di tutti?
“A Gaza ci sono 1500 cristiani di cui solo 200 cattolici. Sono obbligati a restare lì dove hanno casa, lavoro un pezzo di terra, e non possono uscire dalla Striscia. All’interno la situazione è grave e stiamo assistendo ad una svolta islamista da parte di Hamas che la governa. Tre giorni fa abbiamo avuto una riunione con il governo che ha chiesto alle scuole private di tenere separati ragazze e ragazzi. Non possono più frequentare la stessa scuola. Hamas crede così di allontanare le tentazioni. A Gaza abbiamo tre scuole, non possiamo certo costruirne altre tre. Lo scorso anno avevano fatto la stessa richiesta ma eravamo riusciti ad evitarla questa volta non sappiamo cosa fare. L’islamizzazione è evidente: hanno impedito l’apertura di negozi di alcoolici, i ristoranti devono essere chiusi durante il Ramadan, non si può fumare in strada, e potrebbero anche chiedere di indossare il velo”.

Le primavere arabe possono favorire un miglioramento della vita dei popoli della Regione e quindi anche dei cristiani?
“Mi auguro che il mondo arabo viva la sua primavera allo stesso modo in cui i Paesi dell’Est Europa sono usciti dal comunismo, ovvero senza versare una goccia di sangue e in modo pacifico”.

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