Di Alberto Campoleoni

I test Invalsi sono ormai una realtà della nostra scuola e anche quest’anno si presentano accompagnati da una serie di reazioni contrastanti, tra chi li vede come una necessaria tappa di miglioramento della scuola e adeguamento agli standard europei e chi ne contesta l’impianto, il valore e anche la spesa (14 milioni di euro l’anno).
In questi giorni le prove interessano la primaria: le seconde e le quinte, con il “quiz” d’italiano e matematica. Verrà poi il turno degli alunni della prima media e di quelli delle seconde superiori, per concludere con gli studenti di terza media in sede di esame (con l’esito della prova che peserà per un sesto sulla valutazione complessiva ai fini della promozione e soprattutto del voto finale).
Tra le novità di quest’anno, oltre alla raccolta elettronica dei dati, una maggiore presenza di domande aperte, sia in italiano sia in matematica, perché – spiegano gli esperti – si vuole “insistere più sulle competenze e sul ragionamento che sulle conoscenze nozionistiche”. Una revisione rispetto al passato in considerazione delle tante critiche raccolte dalla “scuola dei quiz”.
Critiche che persistono. I Cobas hanno indetto una serie di manifestazioni in occasione dei test Invalsi, che ritengono “distruttivi”, sostanzialmente estranei al processo scolastico, una valutazione fuori luogo del lavoro di docenti e studenti oltre che delle stesse scuole. Toni più soft, ma critiche ferme anche da altri versanti dei sindacati della scuola. Con il segretario generale scuola della Cgil Mimmo Pantaleo, ad esempio, che bolla i test Invalsi come “prove sbagliate che testano solo l’apprendimento di italiano e matematica mentre il sistema di valutazione è cosa molto più complessa”.
C’è poi il versante genitori, con qualche mobilitazione che arriva anche, in casi limitati, a tenere a casa i figli da scuola in occasione dei test.
Tutto questo confligge con le convinzioni dei ricercatori Invalsi, i quali presentano invece i nuovi test come uno strumento importante non solo per misurare gli apprendimenti degli allievi, ma in generale per valutare il sistema scolastico, anche attraverso la comunicazione dei dati raccolti sulle scuole e la loro diffusione anche ai genitori.
Il quadro è controverso e certamente la questione valutazione – degli allievi e del sistema – non si risolve in modo riduttivo attraverso i test. Tuttavia la strada intrapresa va percorsa fino in fondo. Senza troppa enfasi, i test Invalsi possono essere davvero una risorsa nella misura in cui permettono di raccogliere alcuni dati oggettivi su apprendimenti e condizioni del sistema. Andranno calibrati al meglio, alla ricerca di un equilibrio tra nozionismo e ragionamenti, tuttavia essi introducono una logica di certificazione e di trasparenza che fa bene alla scuola. Come ogni strumento – questo sono i test – dipendono in gran parte dalla sapienza dell’utilizzatore (a ogni livello). Hanno anche bisogno – e questo è un nodo estremamente sensibile, che coinvolge scelte di politica scolastica – di ampio coinvolgimento e ricerca di condivisione soprattutto tra i docenti, molti dei quali si sentono invece ai margini e messi sostanzialmente in discussione. Non solo dai test. Qui c’è ancora strada da fare.

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