Di Patrizia Caiffa

Ilaria, Chiara e Alessandra sono solo i nomi delle ultime vittime di una strage che i media definiscono oggi “femminicidio”. Nel 2012 sono state uccise 124 donne, quest’anno già 36. Le stime dicono che in Italia una donna viene uccisa ogni tre giorni, uno dei più alti tassi al mondo. Di solito i responsabili sono mariti o ex fidanzati di ogni età o ceto sociale che dichiarano di “amarle”. Il Sir, ne ha parlato con il criminologo Duccio Scatolero, dell’Università di Torino, che amplia l’analisi ad una sorta di “guasto” che colpisce tutte le relazioni.

Cosa sta succedendo in Italia? Cosa pensa del cosiddetto “femminicidio”?
“Sicuramente le cifre sono in aumento. Non sono incredibili in termini assoluti perché gli omicidi si contano sull’ordine delle unità. Ma certo un aumento di quaranta è già fenomenale. Ed in altri Paesi non succede. A me la definizione di ‘femminicidio’ non piace perché semplifica un problema molto complesso. Vorrebbe dire costituire una nuova categoria di autori di reati, che non si chiamerebbero più omicidi ma ‘autori di femminicidio’, che non vuol dire nulla. Non penso che lo scontro di genere sia un nuovo problema sociale e culturale, anzi, mi sembra che in questa stagione di crisi, di difficoltà, sia molto più forte l’unione tra i generi, la collaborazione”.

Però si parla di un machismo che torna in una veste nuova, diversa…
“Non credo nemmeno a questo. Penso invece ci siano molte più eventualità di scontro e prove di forza tra gli umani. Ci sono molti scontri non gestiti, non tenuti sotto osservazione, fino ad arrivare alla prova di forza finale, nella quale la donna è fisicamente più debole. Il conflitto ha una dinamica paritaria che si sviluppa fino ad arrivare alla prova finale, di forza fisica. I conflitti non devono essere lasciati andare fino a quel livello. Perché quando ci si arriva è inevitabile che uno vinca e l’altro perda. Ma la questione del conflitto tra persone non trova nessun interesse pubblico”.

Qual è il percorso che porta alla violenza estrema, fino all’omicidio?
“Il percorso della violenza è lo stesso per tutti: de-umanizzare chi hai di fronte, farlo diventare una cosa. A quel punto lo colpisci. Questi processi di de-personalizzazione, che una volta facevano parte dei sintomi dell’infermità mentale, oggi sono diffusi tra le persone normali. Oggi si de-personalizza il proprio interlocutore mille volte durante una giornata: allo sportello della Asl, per la strada, sull’autobus. Diventa un processo così facile, quotidiano, che quando arriva il momento adatto è semplice fare il passaggio e trasformare chi hai di fronte in un oggetto e colpirlo”.

E come si argina la violenza?
“La violenza viene da un impulso naturale all’aggressività. Poi per fortuna gli umani, a differenza degli animali, sono dotati di un’arma di difesa, che è la cultura. In contesti in cui la cultura si è impoverita o non funziona più come freno, gli umani seguono l’impulso naturale. Cultura non significa istruzione, ma riferimenti culturali come l’etica, i valori, i principi, la considerazione della vita propria e degli altri, il rispetto del corpo, la dignità. O si usa la cultura per tenere a bada la voce dell’istinto. Oppure, quando si sdoganano tutti questi valori e contenuti culturali che dovrebbero accompagnare la nostra vita, si segue l’istinto”.

Sarebbe utile una “task force” contro il “femminicidio”?
“Non so cosa si intenda per task force. I processi sono lunghi e comprendono, da un lato interventi molto più approfonditi per le vittime, come i centri di aiuto, che non ci sono o non hanno abbastanza risorse. L’unico vero intervento di protezione delle vittime è fare qualcosa nei confronti degli autori, che non vuol dire solo sbattere in galera chi commette i reati. Bisogna considerare che chi va in galera, se non ha ucciso dentro di sé la propria vittima, esce e riattiva i meccanismi che ha in testa in una nuova relazione. E Il discorso ricomincia. È un lavoro psicologico, di de-condizionamento e disintossicazione dalla violenza”.

E leggi contro la violenza o limiti alla mercificazione del corpo delle donne?
“Non si può pensare che una legge risolva tutto. Sono dei baluardi di difesa utili ma non illudiamoci che risolvano ciò che ha radici sociali, culturali e psicologiche e richiede interventi non solo giudiziari. Sicuramente limitare la mercificazione del corpo delle donne può servire per contribuire a ri-umanizzare i percorsi di vita quotidiana, ricordando che intorno a noi ci sono persone in carne e ossa, non solo immagini o figure virtuali. Bisogna rimettere in gioco la dimensione umana delle relazioni. Ciò che può essere più utile è offrire a chi sta vivendo esperienze conflittuali con il prossimo, degli spazi dove ricevere aiuto, ascolto e accoglienza. Le relazioni domestiche si sono guastate e non c’è nessuno intorno a cui rivolgersi per dire: ‘non ce la faccio più’. È vero che ci sono gli enti di solidarietà che danno aiuti alimentari o economici ma c’è chi non regge più l’impatto sul piano delle relazioni. E dove vanno queste persone? Non sono malati che possono rivolgersi alla sanità o casi sociali che possono ricevere assistenza. Non hanno un posto dove andare”.

Siamo dunque una società seriamente malata nelle relazioni?
“Esatto. Ci sono delle relazioni guaste e bisogna trovare figure, anche volontari, che ascoltino i problemi delle persone. Dovrebbero essere presidi sul territorio. Pensiamo a tutti i casi di suicidi di disoccupati, imprenditori, familiari. Prima di arrivare a quel punto ci dovrebbe essere un posto dove andare a chiedere una mano. È la malattia di una società che non è più capace di occuparsi del prossimo. Bisognerebbe anche lavorare molto nelle scuole, educando i ragazzi a gestire il reale e il virtuale. L’intervento più utile a livello governativo sarebbe di mettere a disposizione qualche risorsa agli enti locali, perché possano rimettere in moto dei meccanismi naturali di aiuto e accoglienza sul territorio”.

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