Di Domenico delle Foglie

ITALIA – Il 18 aprile le Camere si riuniranno per eleggere il dodicesimo presidente della Repubblica italiana. Il 24 e 25 febbraio gli italiani hanno votato, ma l’Italia è ancora senza governo.
Nel frattempo il Paese ha assistito al balletto estenuante ed estenuato dei “no”, ripetuti sino alla noia. Poi, all’improvviso, alcune parole hanno dato una scossa ai Palazzi della politica italiana. Poche parole affidate alle colonne del “Corriere della Sera” sembrano aver chiuso una pagina sgualcita per aprirne una tutta nuova. Da Paese normale, direbbe qualcuno. Da Paese rinsavito direbbe qualcun altro. Forse semplicemente da Paese dotato di sano realismo, che nulla ha a che fare con il cinismo che si vorrebbe indicare come il marchio distintivo della politica.
Forse, per una volta, varrebbe la pena prendere sul serio questa piccola svolta. Cioè prendere per buone le parole di Dario Franceschini, ex segretario del Pd, che in poche righe ha riaperto il dialogo fra le due maggiori forze politiche del Paese: “È arrivato il momento di dialogare con il Pdl”. E ancora: “Ci piaccia o no, gli italiani hanno stabilito che il capo della destra, una destra che ha preso praticamente i nostri stessi voti, è ancora Berlusconi. È con lui che bisogna dialogare. La sua sconfitta deve avvenire per vie politiche. Non per vie giudiziarie o legislative”. E per chiudere con i tic del passato eccolo affermare: “Dobbiamo toglierci di dosso questo insopportabile complesso di superiorità, per cui se l’avversario ti piace ci parli, altrimenti non ci parli nemmeno”.
Ecco, parlarsi è già un buon inizio. Non è la soluzione dei problemi, ma rappresenta l’irruzione della normalità in uno scenario politico per molti versi impazzito, nel quale troppi inseguivano sogni irrealizzabili e intese improbabili. Mentre la dura realtà avrebbe già dovuto dettare loro la necessità di cercare una via praticabile per garantire al Paese una fase di relativa pace sociale, così da favorire una lenta, forse lentissima ripresa economica. E con essa il necessario alleggerimento delle tensioni sociali che serpeggiano nel profondo della società italiana, con il suo milione di licenziati nel 2012, con i suoi giovani disoccupati o sottoccupati, con i suoi suicidi per disperazione, con i suoi milioni di nuovi poveri che sono il vero choc che tutti noi facciamo fatica ad assorbire.
Ecco perché parole che sembrano chiudere una lunga stagione di bipolarismo impazzito e violento, suonano come unguento sulle ferite. Certo, siamo lontanissimi da un accordo tanto per l’elezione del presidente della Repubblica, quanto di un governo “minimo” dagli orizzonti brevi. Eppure, quelle parole di Franceschini, sicuramente maturate nelle stanze più importanti del Pd, forse ci possono aiutare a capire, una volta per tutte, che ci sono due condizioni necessariamente concatenate per una sana democrazia dell’alternanza: la stabilità dei governi e la legittimazione del proprio avversario politico. Due condizioni che il nostro bipolarismo infantile e imperfetto hanno praticamente tradito con un’ostinazione insopportabile. Quanto tempo è stato sprecato nel combattersi senza tregua nella demonizzazione dell’avversario. “Comunista” o “Caimano”, a seconda degli interessi del proprio schieramento. Tutto questo mentre il Paese perdeva colpi e si consegnava, imbelle, alle gelide regole di Bruxelles. E mentre nell’opinione pubblica montava una feroce quanto motivata ondata antipolitica che ha trasformato il nostro sistema, da un bipolarismo impazzito e inconcludente, in un tripolarismo paralizzante e cinico.
I pochi giorni che mancano all’elezione del presidente della Repubblica ci diranno se davvero la politica italiana avrà cambiato marcia, se la reciproca legittimazione diventerà costume politico, se ci verrà restituita una dialettica politica da democrazia occidentale, se potremo tornare a sperare in un futuro per il nostro Paese. L’alternativa sarebbe un avvitamento nella crisi istituzionale, con inevitabili gravissime ripercussioni economiche e sociali. Con un costo umano insopportabile per i nostri poveri, per i nostri ceti popolari, per le nostre famiglie, per le nostre comunità.

P.S. Il “coraggio” della Dc e del Pci nel lontano 1976 nel dare vita a un governo di “larghe intese”, evocato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha sostanzialmente dettato l’agenda dell’incontro fra Bersani e Berlusconi. La domanda è questa: avranno lo stesso coraggio di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer?

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