Di Marco Testi

Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui,
sto Rivera che ormai non mi segna più,
che tristezza, il padrone non c’ha neanche ‘sti problemi qua.
Vincenzina davanti alla fabbrica,
Vincenzina vuol bene alla fabbrica,
e non sa che la vita giù in fabbrica
non c’è, se c’è com’è ? 

Una ragazza di fronte alla fabbrica, con tutte le speranze, con la rassegnazione, l’ansia e la paura di chi, disarmato, entra dalla porta di servizio nel mondo della vita e del lavoro. Solo un grande pittore o un poeta potevano fermare questa dolente immagine di iniziazione novecentesca all’esistenza. Chi ha scritto quei versi era uno dei poeti della musica italiana, come De Andrè, Tenco, Gaber, Endrigo. Anche per Jannacci è purtroppo giunto il momento di usare i verbi al passato: si è spento infatti ieri in una clinica di Milano all’età di settantasette anni. Medico cardiologo, (aveva operato anche in Sudafrica con l’equipe del dottor Barnard, il primo a tentare trapianti di cuore), pianista con tanto di diploma di conservatorio, cantautore, era stato investito da quella aura di milanesità conferitagli dall’aver creato vere e proprie icone di una certa cultura proletaria milanese: “Ei purtava i scarp del tennis”, “l’Armando”, “L’inquilino” gli hanno consegnato il ruolo di bardo di una esistenza ai margini della metropoli, tra bar di periferia, strade malfamate e dissestate, strategie strampalate per sbarcare il lunario.
Ma il genio del dottor Jannacci aveva qualcosa di brechtiano, autore che non a caso trovò proprio a Milano una patria d’elezione grazie a Strehler: la comicità si fonde con la denuncia delle ineguaglianze e delle prepotenze, la mobilità comica del volto diviene tutt’uno con l’impassibilità e l’afasia di fronte al dolore e alla morte anonima e ingiusta. “Vincenzina e la fabbrica”, colonna sonora del film di Monicelli Romanzo popolare, uscito nel 1974, affresco musicale dei destini di adolescenti di fronte all’impassibile prova della catena di montaggio, è la prova della capacità di Jannacci di sondare aspetti diversi dell’esistenza. In “Giovanni telegrafista”, mimetizzandosi nel mondo del telegrafo, fatto di elissi e infiniti, Jannacci riesce a parlare dall’interno del punto di vista del povero impiegato che sognava un amore e una comune storia familiare: “Per le sue mani passò mondo, mondo che lo rese urgente/ crittografico, rapido, cifrato/ passò prezzo caffè passò matrimonio Edoardo ottavo/ oggi duca di Windsor/ passarono cavallette in Cina/ passò sensazione di una botta volante/ passarono molte cose ma tra l’altro/ passò notizia matrimonio Alba con l’altro./ Giovanni telegrafista, quello dal cuore urgente, non disse parola, solo rondini nere/ senza la minima intenzione simbolica/ si fermarono sul singhiozzo telegrafico”, quadro sintetico eppure mirabile dei sogni di “normalità” dentro le contraddizioni di una vita segnata dalla necessità, dalla condanna alla banalità e alla solitudine esistenziale.
Ma Jannacci si dedicò anche ad operazioni più “politiche”, come “Sei minuti all’alba”, disco dedicato alla lotta partigiana, e “Ho visto un re”, che dietro l’apparente nonsense cela una aggressiva e insieme divertita demistificazione del potere e dello sfruttamento dei più deboli.
La vena popolare non finiva solo nella satira e nel riso: prima ancora di “Vincenzina e la fabbrica” il cantautore aveva dato dimostrazione di saper coniugare finezza introspettiva, storie personali e Storia con la maiuscola, come in “Sfiorisci bel fiore”, in cui l’amore incontra la guerra e la morte. Presentando questa canzone in una trasmissione televisiva degli anni Sessanta, Jannacci, rivolgendosi al pubblico, spiegò con grande franchezza che essa manifestava una “faccia un po’ insolita di me, perché siete abituati a vedermi come un matto, uno che viaggia sulla linea dell’assurdo”. In questa stessa trasmissione confessò che il più bel complimento che gli avevano fatto riguardo questo suo pezzo era che aveva scritto una canzone popolare.
Dimostrazione di umiltà, impegno e fedeltà alla propria vocazione che gli permetteva di tenere assieme, cosa assai difficile, umorismo, impegno sociale, sentimenti profondi e lucida visione della realtà delle periferie urbane.
Se ne è andato un altro pezzo di storia della poesia in musica. Peccato, perché quei poeti avevano ricordato che si poteva recuperare ciò che era la norma nella Provenza del dodicesimo secolo e in tutto il medioevo: l’unione tra il testo letterario e la musica; non un’arte minore, ma un’arte vera.

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