Di Angelo Zema – direttore Romasette.it

ROMA – “Custodire la gente”, “aver cura specialmente di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”.
L’appello di Papa Francesco nell’omelia della Messa per l’inizio del suo ministero petrino si ispira al nucleo portante dell’insegnamento di Francesco d’Assisi. E va in due direzioni: lo sguardo sulle periferie dei vari territori, luoghi solitamente segnati dalla povertà e dal disagio, e l’attenzione alla periferia del cuore, metafora di una vita interiore non coltivata, di uno scarso o mancato esercizio della custodia di se stessi.
Sembra quasi riassumerle in un’unica efficace espressione un parroco della zona sud di Buenos Aires, poche ore dopo quell’evento: “Guardare la vita dalla periferia”, afferma come imperativo pastorale padre Gustavo, intervistato dal Sir sull’impegno di “padre Bergoglio” come arcivescovo della diocesi argentina e sulla sua testimonianza.
Un rovesciamento della logica abituale in cui la periferia è sempre qualcosa di lontano, dove si arriva con fatica, quasi con sforzo, un luogo che evoca pregiudizi e chiusure, ghetti e sacche di emarginazione. Guardare dalla periferia è recuperare una capacità di visione sull’essenziale, su ciò che davvero conta, sul senso più autentico del nostro vivere, spesso smarrito tra i luoghi che evocano il “centro”, sede dei poteri politici e finanziari e metafora di contraddizioni irrisolte.
Guardare la periferia del proprio cuore è tornare “ignazianamente” a vivere la potenzialità dell’esperienza del deserto, a vigilare su stessi e sulle proprie relazioni, a riappropriarsi della dimensione dello stupore che ci avvicina al mistero. Guardare dalla periferia, e insieme scrutare coraggiosamente nella periferia del nostro cuore, è dare il primato ai poveri: certo, le vittime di una crisi economica sempre più cruda, ma anche gli indifesi attori di una società che dà spazio a chi produce e consuma e che relega ai margini gli altri, i “più fragili” appunto. I bambini, i vecchi, gli ammalati, i senzatetto, i feriti dalle crisi familiari sempre più numerose. I “soli”, potremmo anche dire, nuovi poveri dell’opulento Occidente. Colpiti tutti da guerre silenziose che si combattono giorno dopo giorno in ogni angolo del mondo, soprattutto nelle periferie, che – si badi bene – non si trovano solo ai margini estremi delle città.
Mi viene in mente l’immagine di un uomo anziano che spinge a fatica un carrello di supermercato, colmo dei suoi stracci, tra i grattacieli di banche e uffici della “downtown” di Los Angeles. O il ricordo di un uomo che, nella civilissima Roma violentata dall’indifferenza e dall’anonimato, spara un colpo di pistola alla testa della moglie malata di Alzheimer, dichiarando la propria resa. Immagini visibili e “invisibili”, presenti anche in tutti i nostri territori: storie di disperazione nascoste nell’ombra, grida di dolore che spesso trovano una risposta solo dalla Chiesa. Una Chiesa compagnia affidabile, testimone dell’ascolto attento e del servizio umile, la Chiesa delle nostre comunità vive tra inevitabili errori e grandi slanci, dall’ombra del Cupolone fino ai villaggi delle Alpi e alle località del Sud dimenticato. Una Chiesa rivitalizzata dallo stile di Papa Francesco e corroborata dalle parole sussurrate di due Papi, l’uno in carica e l’altro emerito, che consegnano alla storia la carica di giovinezza non comune che proviene dallo Spirito.
Proprio dall’ombra del Cupolone, in un certo senso, parte il viaggio del Sir tra le periferie dei territori e quelle del cuore, tra le mille risorse e le piccole croci quotidiane delle parrocchie. Con il generoso spendersi dei sacerdoti e dei laici, di religiosi e religiose. “Sono fiero di appartenere a questa Chiesa”, diceva proprio ieri, nella breve omelia seguita alla lettura del “Passio” della Domenica delle Palme, un parroco di Roma.
Ma siamo certi che l’avranno ripetuto anche altrove, accanto alle migliaia di campanili italiani. Con l’obiettivo di guardare la vita dalla periferia.

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