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Scendiamo dalle nostre papamobili

Alessandro Ribeca

La croce di ferro, le scarpe consumate, l’anello d’argento anziché d’oro… Si mette nome Francesco per richiamarsi al Poverello d’Assisi, esce dalla chiesa dopo la Messa per salutare i fedeli, scende dalla sua jeep per abbracciare un infermo, dice che il ruolo del Papa comporta potere, ma che questo potere è fatto per il servizio.

Qui c’è il rischio di fermarsi a dire ‹‹Ah che bravo questo Papa!›› per poi continuare sulla nostra strada, come se niente fosse. Qui c’è il rischio di essere contenti per un Papa che fa le “cose giuste” perché è vicino agli ultimi, senza però sentirsi coinvolti in prima persona. Qui c’è il rischio di conformarci a quelli che amano o non amano la Chiesa in base alla simpatia o all’antipatia che si ha per il Papa o il prete di turno.

C’è da stare attenti, perché la testimonianza, quella che provoca, che stupisce, è una chiamata! Nel messaggio di Papa Francesco, in fondo, non c’è nulla di nuovo perché non fa altro che proporre il messaggio dei Vangeli. La novità forse sta nel suo carisma, nel talento che lo Spirito Santo gli ha donato, e cioè quello di avvicinarsi al mondo con tenerezza, la stessa che lui vede in San Giuseppe. Se sento questa bellezza e questo stupore di fronte a un uomo così, non posso che seguirlo. E seguirlo non significa raccontare quello che fa o ripetere quello che dice, ma significa essenzialmente fare quello che lui fa. Appoggiare i piedi dove li ha appoggiati lui.

Guardate che questa storia di un Papa così ci mette in crisi! Ci costringe a rivedere il nostro modo di vivere, ci costringe a modificare la nostra scaletta dei valori. Ci costringe a un cambiamento personale. Sarebbe sciocco pensare che il Papa faccia certe cose per sentirsi amato! Lui le fa, innanzitutto, perchè è il suo modo di essere e di vivere il Vangelo, e soprattutto per dirci che è possibile vivere così! Ci sta tracciando una strada nuova, più vera, sicuramente più faticosa perché occorre portare la croce, ma che rende senz’altro felici. Se non apriamo il nostro cuore a questo semplicissimo messaggio non abbiamo capito nulla.

E allora, concretamente, qui c’è da spogliarci del nostro oro, del nostro perbenismo, del nostro “so tutto io” e scendere dalle nostre papamobili per abbracciare l’altro così come è! Accoglierlo senza chiedersi cosa pensa della vita, della religione, di politica, senza chiedersi di che nazionalità sia, se sia sano o malato. Senza inculcargli le nostre idee, i nostri principi, la nostra fede. In definitiva, abbracciarlo semplicemente perchè è un uomo come te. Occorre aprire le nostre parrocchie, le nostre case, i nostri luoghi di accoglienza a chi incrociamo per strada. Non lasciamo i nostri luoghi chiusi a chiave e soprattutto usciamo dalle nostre realtà finte, dalle nostre comodità, dai nostri programmi che portano all’indifferenza e all’immobilità. Rischiamo! Papa Francesco non si è fatto portare un infermo per abbracciarlo, ma lo ha incontrato in piazza. Non si programma un abbraccio! Non lo ha scelto, ma semplicemente il prossimo era lì, sulla sua strada. Ognuno ha il suo prossimo da abbracciare. Non serve andarlo a cercare perchè cercandolo si rischia di fare quello che si fa quando si deve acquistare un vestito: giriamo tanto finché non troviamo quello più comodo e più adatto a noi, che non sia né troppo largo, né troppo stretto, che ci faccia fare bella figura.

Il nostro prossimo è sulla strada. Mettiamoci in cammino e, quando lo incontriamo, scendiamo dalla nostra papamobile e abbracciamolo senza aver paura della bontà e della tenerezza di cui siamo capaci. Lasciamoci sorprendere dal nostro amore senza dare giustificazione a chi non ce la chiede, ma se qualcuno dovesse incuriosirsi del nostro abbraccio rispondiamo semplicemente: ‹‹Ho incontrato uno che faceva così e l’ho seguito.›› Solo in questo modo l’abbraccio non diventerà una presa stringente e l’altro si sentirà veramente libero.