Di Alberto Campoleoni

ITALIA – La vicenda di Yara Gambirasio continua a tenere banco sui media e nelle emozioni di tante persone che si sono appassionate alla sorte di questa ragazzina di 13 anni, scomparsa improvvisamente nel nulla una sera di novembre del 2010.
Tornava a casa dalla palestra poco distante dalla sua abitazione, un tragitto abituale e proprio qui, nella normalità quotidiana, ha fatto irruzione il mistero del male, accentuato dalle difficoltà delle ricerche, dalla mancanza di indizi, dal buio nel quale si sono mosse fin dall’inizio le indagini. Yara è stata ritrovata uccisa, tre mesi dopo, a poca distanza dal suo paese e dove già l’avevano cercata tutti. In un campo più volte setacciato dai volontari che hanno messo per giorni, settimane e mesi, passione, cuore, rabbia e tanta fatica nell’impresa, vana, di trovare tracce della ragazza. Quasi una beffa, uno scherno ulteriore di un misterioso regista nascosto che si compiace del male, della paura, del senso d’impotenza capace di paralizzare chi si trova di fronte a tanta enormità. Perché è un’enormità pensare al sorriso di una bimba improvvisamente finito nel buio senza un rumore, una spiegazione. Senza nemmeno un “mostro” cui aggrapparsi per trovare spiegazioni.
Ecco, la vicenda di Yara porta con sé questa enormità, che però non è sola. C’è qualcos’altro che si accompagna allo sgomento della tragedia e che in qualche modo riesce a darle una traccia di umanità, a suo modo la vince. C’è una famiglia che fin dall’inizio ha combattuto con tutta la sua dignità per non arrendersi al male. Un papà, una mamma, altri figli. E con loro una comunità, quella di Brembate Sopra, che si è stretta intorno a queste persone con partecipazione e un silenzio tanto prezioso quanto inusuale nel tempo dell’invadenza dei media. Una famiglia e una comunità che non hanno avuto timore di mostrarsi ancorate a una fede forte e insieme un senso del rispetto per le persone che ha saputo conquistare il primo piano, più forte del dolore, una luce in quel buio che voleva l’intera scena.
La famiglia, soprattutto, che ha accompagnato dignitosamente anche tutto il dipanarsi delle indagini, faticose, incerte, persino contraddittorie. Che ha saputo anche protestare con fermezza, pur senza concedere nulla a protagonismi e sbavature. In aula, a chiedere indagini incisive. Addirittura con una lettera, quasi “sussurrata” con delicatezza al presidente della Repubblica, Napolitano, capo del Csm. Per chiedere informazioni, più coinvolgimento da parte della magistratura, per non cedere al senso di abbandono e di scoramento che può ben venire dopo anni di ricerche vane di una verità sul caso.
E colpisce anche la risposta del presidente della Repubblica, con la stessa delicatezza e sobrietà con la quale è stato investito del caso da mamma Maura. Un intervento istituzionale e rispettoso delle competenze sulla magistratura, ma soprattutto una lettera riservata a quella mamma che lo ha interpellato. “Ho Yara nel cuore”, le ha scritto il presidente, in forma privata e senza pubblicità, quasi come con una carezza appena accennata, pudica, di fronte al dolore composto di una donna e di una famiglia ferita. “Non perdete la fiducia”, la raccomandazione. Piace pensare che in queste parole di Napolitano, in questa carezza, ci sia quella di tutti noi, che non abbiamo dimenticato il sorriso di Yara e nemmeno la testimonianza di umanità e di forza di una famiglia, capace di farci guardare oltre anche il buio del male.

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