di Alessandra Leardini

ITALIA – Da una parte il genitore con le sue regole, dall’altra il figlio che comincia a distanziarsi. Il rapporto di un padre e una madre con un ragazzo che si affaccia all’adolescenza viene visto così, come una gara di tiro alla fune, da Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva.
Al padre “riuscirebbe facile vincere: basterebbe dare uno strattone più forte alla corda” per trascinare il figlio “nella propria metà campo” e obbligarlo a essere obbediente.
Accanto ai genitori che non permettono ai figli di maturare ci sono, però, anche tanti padri che “decidono di mollare subito la fune”. Con un altro rischio: che il ragazzo, “impegnato a tirare al massimo della sua potenza, si ritrovi allo sbando”. Pellai è stato uno dei relatori al convegno “I preadolescenti e i loro mondi vitali”, organizzato dalla diocesi di Rimini il 25 e 26 gennaio. Oltre 500 gli iscritti tra sacerdoti, religiosi, catechisti, insegnanti, educatori e genitori.

Ali in dono. L’età delle scuole medie è un momento di passaggio, sia nella persona sia nel suo essere cristiano. È l’età in cui “si comincia a costruire una nuova idea di se stessi”, ha spiegato Pellai, in cui l’adulto “diventa un estraneo”, in cui si “chiede in dono un paio d’ali” per proseguire da soli, più o meno autonomamente, nel cammino della vita. In quest’ottica, secondo lo psicoterapeuta, l’educatore diventa un ottimo allenatore “quando aiuta, accompagna e sostiene il lavoro di montaggio e smontaggio dell’identità dei figli, facendo attenzione che non si rovinino o, peggio, non si perdano dei pezzi”. I preadolescenti, ha proseguito, “vogliono sapere di essere protetti anche nel momento della caduta”. Costruire un paio d’ali per loro è faticoso ma straordinario. “Se sei un bravo allenatore – ha concluso Pellai – vedrai i figli andar via, volare utilizzando quelle ali che tu hai aiutato a costruire”.

Responsabilità collettiva. “Solo il ‘noi’ educa”, ha affermato il vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, ricordando il brano del Vangelo in cui Gesù dodicenne si smarrisce e viene ritrovato al tempio. “Gli adulti – ha commentato il vescovo – a volte non si rendono conto di averli già perduti, i figli. Ma i genitori di Gesù tornano indietro, mentre tanti educatori tirano dritto anche in presenza di errori”. Questo brano del Vangelo, secondo mons. Lambiasi, mette anche in evidenza che “l’azione educativa è sempre responsabilità di un ‘noi’: un padre e una madre, genitori, insegnanti ed educatori”. Ha bisogno di “alleanze e sinergie tra famiglia, scuola, società e comunità cristiana”. Ma, soprattutto, “è una sfida per gli adulti, chiamati a riappropriarsi del loro ruolo, in una società che ne ha estremo bisogno”. Chi educherà gli educatori? La sola risposta plausibile, per mons. Lambiasi, punta sul ruolo della comunità cristiana intesa come “luogo in cui i ragazzi possono portare le loro domande di senso” e dove “socialità non è un semplice stare insieme tra coetanei”, ma “un’esperienza orientata da obiettivi da raggiungere”.

Oratorio, spazio vitale. Un rischio molto forte, oggi, è che “il mondo dei preadolescenti non vada oltre la panchina, il divano di casa o, al massimo, la pagina Facebook”. Un antidoto può arrivare dall’oratorio, secondo don Andrea Ciucci, del Pontificio Consiglio per la famiglia, che a Rimini ha portato 27 anni di esperienza di oratori con i ragazzi delle medie. È in questo spazio “vitale, relazionale ed educativo”, ha commentato don Ciucci, che ci si può “mettere in gioco e allargare i propri orizzonti”. Qui si può trovare non solo un luogo di preghiera – “e non è vero che i ragazzi di oggi non sono abituati a pregare”, ha precisato il sacerdote – ma anche uno spazio che provoca e stimola le libertà dei più giovani. Non è un caso, ha ricordato, se “molte esperienze vocazionali hanno avuto un loro primo germoglio proprio in questi anni di preadolescenza”. Così come non sono casuali le domande provocanti e i dubbi sulla fede che questi ragazzi sono soliti porre ai loro educatori. “Non bisogna preoccuparsi di questi dubbi, ha puntualizzato don Giorgio Bezze, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano di Padova; anzi, “sarebbe più preoccupante se queste domande, alle quali non si può non rispondere, non fossero poste”.

Linee per la pastorale. La necessità d’investire su una buona qualità di educatori è una delle priorità che, secondo don Bezze, la Chiesa deve porsi con i preadolescenti. Ma come educare alla vita cristiana in questa età di passaggio? “Non convertendo – ha spiegato don Bezze – ma creando le condizioni perché l’incontro con Dio possa avvenire”. è necessario ripensare la catechesi “non più solo come una preparazione ai sacramenti”, ma come un’esperienza di carità e testimonianza di vita cristiana nella quale il giovane possa “rispondere con più responsabilità ai doni che gli sono stati offerti attraverso i sacramenti”. “I preadolescenti – ha aggiunto don Salvatore Soreca, membro della Commissione nazionale per l’iniziazione cristiana – possono essere parte integrante della progettazione pastorale, e arricchirla”. Perché il dopo Cresima non rappresenti solo un rischio di fuga dalla parrocchia, ma una risposta di fede più consapevole.

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