ROMA – È stato “Il pensiero ebraico di fronte alla Shoah” il tema affrontato ieri sera alla Pontificia Università Gregoriana di Roma all’interno del ciclo di conferenze su “La Shoah tra memoria e storia: le rappresentazioni della Shoah in Italia e in Europa”.

Grandissima cautela. “Parlare della Shoah è sempre una grande questione”, ha esordito il rabbinoBenedetto Carucci Viterbi, direttore delle Scuole ebraiche di Roma: “Ci vuole grandissima cautela e ritegno per chi allora non c’era, e la spaventosa grandiosità della Shoah – ha aggiunto – richiede cautela nel maneggiarla”. È possibile, si è chiesto, “che la Shoah sia oggetto di pensiero? La tradizione ebraica posteriore – ha osservato – ha molto riflettuto su di essa”, ma le chiavi di lettura da adoperare rispetto a “interpretazioni spesso distanti” sono “inclusive, non esclusive”. Nell’ambito di questo pensiero, inoltre, “la religiosità complica le cose invece di semplificarle”. Il rabbino Carucci ha poi analizzato una “serie di possibili letture della Shoah”, partendo da quella che vede “il male come punizione: si tratta di una lettura lineare che parte dai testi profetici, che leggono la storia mediante la premessa che Dio vi interviene, sia in prospettiva salvifica positiva, ma anche al contrario, come ‘bastoni della sua ira’”. Nella ricerca di “colpe” che aiutino a “comprendere una catastrofe simile”, però, avvisa, si “aprono le porte all’antisemitismo”.

Letture possibili. Secondo altri, “Auschwitz è la più evidente testimonianza del ruolo testimoniale del popolo di Israele, che dall’esperienza della Shoah esce rafforzato: in questa lettura lo stato di Israele – spiega Carucci – sarebbe l’aggiustamento della frattura della Shoah, che quindi è il prezzo da pagare per la rinascita dello Stato”. Una terza lettura concepirebbe “il male in senso ontologico”, ossia come “la risultante del libero arbitrio”. Una riflessione che parte dal “rapporto che può esistere tra l’intervento di Dio nella storia con la grande tematica della causalità” viene elaborata da Joseph Dov Soloveichik, leader dell’ebraismo ortodosso americano, ma, “qualsiasi lettura causalistica deresponsabilizzerebbe il carnefice, che diventa così solo lo strumento attraverso il quale Dio fa pagare la colpa”.

Una visione ambivalente. Così, l’ultraortodossia legge la Shoah “come una punizione per la volontà di autonomia del sionismo”, adoperando come fonte il Talmud quando dice che “Dio fa giurare collettivamente al popolo che non sarebbe mai tornato in quella terra”. Il direttore delle scuole ebraiche di Roma ha poi evidenziato “la grande ambivalenza” dell’ebreo nella visione occidentale: alla base del meccanismo pregiudiziale è “lo stare dentro e contemporaneamente fuori, un po’ come il perturbante freudiano che sembra un uomo e poi è una macchina. Il turbamento di ciò che prima viene percepito come identico e poi si rivela diverso è maggiore del turbamento provocato da una diversità palese”.

Un pensiero non monolitico. Secondo il rabbino Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione comunità ebraiche italiane, “in tutto il pensiero ebraico non c’è una concezione filosofica di Dio. Non vi è in tutta la filosofia ebraica una conoscenza teologica. Alche sul Talmud, la riflessione ebraica per eccellenza, in cui si fa una lettura specifica della Bibbia, non si parla mai di cosa è Dio o di cosa pensa, ma solo di cosa Dio chiede a noi in questo mondo”. E, quanto al pensiero ebraico sulla Shoah, “non è monolitico”. Per molti la Shoah “è diventata un fastidio, una notazione un po’ logora, da chiudere nell’archivio della storia, magari dopo l’edulcorazione dei testi scolastici”, ha aggiunto Della Rocca esprimendo “grande preoccupazione che la memoria della Shoah si trasformi nella religione del lutto”.

La vita, malgrado tutto. La contraddizione, spiega il rabbino Della Rocca, è che “il popolo ebraico mistico viene esaltato come vittima della Shoah, quello fisico contemporaneo viene negato e molto spesso mistificato”. La memoria ebraica, così, “sostituisce la storia, che dà garanzia di monumentalità al ricordo, pretendendo di offrire in cambio un’impossibile oggettività”. Noi “non possiamo conoscere i disegni di Dio, anzi, l’esperienza di Dio si fa anche attraverso l’esperienza del silenzio”, così, “il vero sacrificio non è tanto quando Abramo e Isacco scalano la montagna, ma quando la ridiscendono dopo che Dio ha rifiutato il sacrificio dando il messaggio che è più difficile vivere che morire per lui: quando Abramo capisce che Dio che vuole la vita, malgrado tutto”.

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