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Economia e Politica, quale futuro?

Di Nicola Salvagnin
ITALIA – Parlando di soldi e lavoro, non è stata un’ottima annata, questo 2012 che si chiude come s’era aperto: male. Che le politiche restrittive in termini di bilancio, promesse dal neonato governo Monti, non facessero presagire orizzonti luminosi, questo era chiaro già da gennaio. Ma noi italiani siamo disabituati da anni alle ristrettezze, e quindi si pensava – si sperava – che un po’ di sacrifici ci avrebbero rimesso rapidamente in carreggiata.
Così non è stato.
Ma uno, della medaglia può e deve vedere pure l’altro lato. Eravamo sull’orlo di un baratro, non ci siamo caduti. E la caduta sarebbe stata disastrosa, se guardiamo ai tumulti di piazza in Grecia e alla disoccupazione mostruosa in Spagna. Ed è stata proprio la stretta di cinghia imposta dal governo Monti a rassicurare il mondo che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, e non una repubblica delle banane.
Più d’uno – anche tra i politici più in vista – non ha ancora capito che l’Italia chiede qualche miliardo di euro ogni giorno (sottolineo: ogni giorno) ai mercati finanziari per sostenere il proprio debito pubblico. Sono come l’ossigeno, per noi. E ottenerli a costi non proibitivi – il famigerato spread – era ed è vitale per non impiegare tutte le nostre risorse per pagare gli interessi sul debito.
Quindi ci siamo salvati la pelle, ma la malattia è ancora in corso. L’effetto di quella stretta di cinghia (più tasse, meno spesa pubblica, meno pensioni) ha inevitabilmente depresso i consumi: abbiamo meno soldi in tasca, quindi ne spendiamo di meno. Ciò ha significato meno vendite, meno produzione, meno posti di lavoro.
E se il Pil, lo spread, le percentuali sono stati l’assillo dei primi sei mesi, l’occupazione è diventata il problema numero uno di questi ultimi sei. E lo sarà nei prossimi dodici mesi, che si preannunciano inizialmente difficili come ora: non c’è la bacchetta magica per sistemare le cose con un tocco della stessa. Il discrimine tra buio pesto e un’aurora all’orizzonte sarà alla fine di questo inverno: gli italiani torneranno a votare. Cosa c’entri un’elezione politica con l’andamento dell’economia, è cosa da capire in controluce. Nessun leader, nessun governo o coalizione ha appunto quella bacchetta magica: né qui, né a Madrid, Parigi o Berlino. Ma il problema è un altro: il timore di chi ci osserva (di chi è nostro creditore) è che non riusciremo a dotarci di un esecutivo stabile e forte; con idee chiare e realizzabili. Insomma, si teme il ripetersi di quell’ingovernabilità iniziata a metà del decennio scorso e che ci ha portato sull’orlo del burrone. Secondariamente, che un governo pur forte e stabile decida di smontare pezzo dopo pezzo la cintura di sicurezza che abbiamo attorno, magari per cavalcare la folle corsa del debito pubblico.
L’ottimismo ci dice che pure i sassi hanno capito in che pantano siamo immersi, e che l’Europa non può permettersi un’Italia verso una deriva di stampo argentino; il pessimismo ci segnala che niente è cambiato – di quelle pre-condizioni di ingovernabilità – negli ultimi dodici mesi.
Si dice che l’Italia da sempre va, a prescindere da chi la governa. Leggi sbagliate? Le aggiriamo. Mercato interno gelido? Si cerca di sfondare in quelli esteri. Prodotti vecchi? Largo ad inventiva e capacità. Se siamo arrivati vivi e vegeti fino ad oggi, qualche merito gli italiani sicuramente ce l’hanno.
Quindi: se è un buon governo, meglio; altrimenti sappiamo arrangiarci. Ma questa volta il destino non è nelle nostre mani (ma in quelle di chi ci ha prestato i soldi); e siamo indeboliti: non abbiamo forze sufficienti per contrastare un cattivo governo. Per cattivo governo, sul fronte economico, intendiamo quello che preferirà ipotecare il futuro per godere di un migliore o comunque diverso presente.