Di Nicola Salvagnin

ITALIA – Non è stata una felice scelta, quella di liberalizzare completamente gli orari degli esercizi commerciali e quindi permettere aperture tutte le domeniche e le feste, oltre che in notturno. Lo sostengono Confesercenti e Federstrade che iniziano da domenica a raccogliere firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare. Questa intende ridelegare alle Regioni la potestà di disciplinare i calendari di apertura in base alle esigenze territoriali.
Era stata una scelta inserita nel cosiddetto decreto “Salva Italia”. Se le intenzioni volevano stimolare i consumi, creare nuovi posti di lavoro, insomma muovere l’economia – purtroppo cancellando la domenica come giorno di festa e di astensione dal lavoro – i risultati non si sono certo visti. Ed è rimasta solo la parte oscura della medaglia: per decine di migliaia di lavoratori italiani, la domenica è diventata un martedì qualsiasi, così come i giorni di festa nazionali o locali.
È vero: sono tanti gli italiani che, per il tipo di lavoro che fanno, alla domenica sono occupati: poliziotti, medici e infermieri, autoferrotranvieri e taxisti, ristoratori e camerieri, giornalisti e secondini… Svolgono servizi essenziali per la società, oppure lavorano quando c’è clientela. Ma il libera-tutto domenicale non era certo necessario: si basava sull’assunto che avrebbe stimolato gli italiani ad acquistare di più, avendo a disposizione più possibilità per farlo.
Peccato però che, in tempo di crisi, non sia il tempo a mancare, quanto il denaro. E questo manca di martedì pomeriggio come di domenica mattina. I risultati, infatti, sono stati pessimi: i consumi in questi mesi sono addirittura calati, pur di fronte a orari di apertura dei negozi quasi illimitati. La nuova occupazione? Assolutamente marginale, mentre i “vecchi” occupati vengono spremuti come limoni e hanno cambiato (in peggio) la loro qualità di vita.
L’“orario di chiusura mai” non ha convinto quasi nessuno: né i consumatori, né i lavoratori, né i piccoli imprenditori del commercio, che si sono trovati di fronte a costi maggiorati e a un carico di lavoro personale aumentato, senza apprezzabili risultati in cassa.
Qualche cosa in più l’ha ottenuto la grande distribuzione organizzata – molto meno di quanto preventivato – ma si può equiparare il sacrificio di mille con il guadagno di tre? Per non parlare dei tanti bottegai che, in questi mesi stanno tirando giù la saracinesca, causa crisi e l’impossibilità di reggere a queste novità. Nel ricco Veneto, chiude un negozio ogni quattro ore.
Si dirà: l’Europa. Ma non è vero. Nei principali Paesi europei, alla domenica i negozi restano chiusi, salvo le realtà stagionali o turistiche. Ma anche qui, basta intenderci: se c’è una Provincia che vive di turismo in Italia, è quella di Bolzano. Ebbene qui i negozi hanno orari precisi e inderogabili, e la Provincia autonoma ha appena deliberato la chiusura di 35 domeniche su 52.
Infine, quel provvedimento “liberalizzante” ha fatto sostanzialmente comodo a pochi grandi centri commerciali alle periferie delle nostre città, sottraendo ancor più clientela alle mille botteghe di paese, ai negozi in centro. Che infatti chiudono, lasciando un deserto che trasforma i nostri centri urbani minori in dormitori.
Insomma, è stato un errore: rimediamo con una firma. Tra il tutto e il niente c’è sempre in mezzo il buonsenso che valuta le situazioni cum grano salis, piuttosto che con “riforme” di stampo americano che hanno il solo effetto di peggiorarci la qualità del vivere.
Oltre al ragionamento economico ci sarebbe infine “qualcosina” da dire – anzi, da ridire – sulla domenica come giorno di festa autentica e come tempo per la famiglia, per le amicizie, per il riposo. La Chiesa e i cattolici hanno più volte levato la voce a difesa di questi valori il cui indebolimento è una perdita secca per tutti.

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